Non sembra essere un’edizione che rischia e prova a esplorare strade ancora poco battute, almeno estremo orientali, quella di quest’anno di Cannes, ma sarà comunque un festival che avrà fra le sue punte di diamante alcuni lavori provenienti dall’area asiatica. In competizione ritorna, dopo aver presentato Asako I & II nel 2018, Ryusuke Hamaguchi, forse il regista dalle tendenze più autoriali uscito dall’arcipelago giapponese negli ultimi anni. Fresco del gran premio della giuria all’ultimo festival di Berlino dove ha portato il notevole film a episodi Wheel of Fortune and Fantasy, e del Leone d’argento lo scorso anno come co-sceneggiatore per Wife of a Spy diretto da Kiyoshi Kurosawa, sulla Croisette Hamaguchi presenterà Drive My Car. Lungometraggio atteso sia in quanto opera di Hamaguchi, ma anche in quanto si tratta dell’adattamento per il grande schermo di un breve racconto di Haruki Murakami. Yusuke Kafuku è un regista ed attore di teatro, interpretato da Hidetoshi Nishijima, già protagonista di Dolls di Takeshi Kitano e Cut di Amir Naderi, che due anni dopo aver perso la moglie, sta lavorando alla trasposizione di Zio Vanja di Cechov. Un giorno una giovane ragazza diviene sua autista, i due pian piano si aprono l’uno all’altro e fra i due si instaura un rapporto speciale. Da una parte il mondo immaginato e creato sulla pagina scritta da Murakami, dall’altra quello che Hamaguchi assieme alle sue attrici ed attori è capace di portare sul grande schermo, i silenzi, le zone di indecidibilità e la forza del non detto, sembrano essere fatti, almeno in teoria, l’uno per l’altro.

L’ALTRO GRANDE NOME estremo orientale in competizione è quello di Apichatpong Weerasethakul, autore fra i più unici nel panorama cinematografico internazionale ed artista a tutto tondo impegnato nell’arte visiva a 360 gradi, che a Cannes già si portò a casa la Palma d’Oro nel 2010 con Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives. Quest’anno debutterà in riviera con il suo primo film in lingua inglese, Memoria, primo lungometraggio dopo Cemetery of Splendour del 2015, il lungometraggio è stato interamente girato in Colombia, nelle regioni montuose di Pijao e Bogotà, e ha come protagonista Tilda Swinton che interpreta una viaggiatrice scozzese che si trova nelle regioni colombiane per visitare sua sorella malata. Qui incontra un archeologo francese, ma la notte non riesce a dormire perché svegliata da assordanti rumori. Il film si preannuncia come un’altra profonda riflessione di Weerasethakul su temi a lui cari quali la memoria appunto, l’identità ed i sussurri che un determinato luogo è capace di far arrivare a coloro che sono predisposti all’ascolto. Il lungometraggio stesso è stato, secondo lo stesso regista, come attraversare un nuovo territorio, sia perché si tratta di un paese lontano dalla sua Thailandia, sia perché, come si scriveva più sopra, ha dovuto lavorare prevalentemente in lingua inglese e in spagnolo. Dopo aver visitato la Colombia nel 2017, Weerasethakul scelse il paese sudamericano come luogo per il suo primo lungometraggio girato al di fuori del suo paese, ritornandovi diverse volte nei due anni successivi per esplorare le varie zone, ma anche per ascoltare i racconti delle persone che incontrava lungo il cammino. Interessante e testimonianza dell’essere artista totale di Weerasethakul è che in settembre, quasi per completare la costellazione cinematografica di cui fa parte Memoria, uscirà un volume illustrato che raccoglie i ricordi da lui raccolti in Colombia sotto forma di fotografie, diario personale, appunti di ricerca, disegni, fotografie dal set, diario delle riprese, pagine annotate della sceneggiatura e contributi del cast e della troupe.

COME SI DICEVA in apertura, le altre sezioni del festival francese non sembrano offrire grandi spunti dall’Asia estremo orientale, ma le sorprese possono sempre arrivare inaspettate, fuori competizione sarà presentato Emergency Declaration del sudcoreano Han Jae-Rim, storia di un incidente aereo, e fra le premiere, sempre dalla Corea del Sud, ci sarà anche il nuovo film di Hong Sang-soo, Front of Your Face, di cui poco si sa. Proiezione speciale per H6 di Yè Yè, documentario prodotto in Francia ma che apre una finestra su uno dei più grandi ospedali di Shanghai, mentre alla Semaine de la critique saranno presenti due lavori dalla Cina, il primo è Lili Alone di Zou Jing, storia di una giovane donna che vive con il marito, un giocatore incallito, in una remota zona dello Sichuan e che si vede costretta a trasferirsi nella città per guadagnare il denaro necessario alle cure del padre. Mentre An Invitation, diretto da Hao Zhao e Yeung Tung, racconta del viaggio di un bambino di 8 anni a Hong Kong per visitare suo padre, divorziato dalla moglie

VALE LA PENA di esplorare infine la sezione Classici, dedicata alla riscoperta di film del passato e restaurati. Due perle assolutamente da non perdere, per motivi diversissimi, arrivano dal Giappone, The Moon Has Risen è un lungometraggio scritto da Yasujiro Ozu e diretto da Kinuyo Tanaka, una delle prime e più importanti donne registe nella cinematografia del Sol Levante. Affermata attrice, fin da giovanissima per Ozu e Mizoguchi, la sua carriera come interprete si estese per più di cinquant’anni, dal 1924 al 1975, Tanaka diresse per varie case di produzione sei lungometraggi. Questo presentato a Cannes è il suo secondo lavoro, realizzato nel 1955, e dovrebbe essere, secondo la pagina ufficiale del festival, la prima tappa di una retrospettiva dedicata alla regista giapponese a venire. Del 1979 è invece Demon Pond, lungometraggio diretto da Shinoda Masahiro, assieme a Yoshida Kiju il solo regista della nuova onda degli anni sessanta nipponica ancora vivo, benché non più attivo come regista. Un film che porta sul grande schermo un’antica leggenda del folklore giapponese e che per stile e sperimentazione quasi camp ben rappresenta l’unicità del periodo cinematografico, la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta, in cui fu concepito.