Tough Love, fermezza a fin di bene. Così era stato descritto il punto di vista di Hillibilly Elegy, un libro che, alla sua uscita, nell’estate del 2016 in piena campagna presidenziale, si trovò investito dell’improbabile funzione di decifrare per il pubblico di massa il mondo dei (nel titolo apparso sul «New York Times») «poveri che sostengono Trump». «Mai un’inchiesta sullo straniamento dell’elettorato è stata più urgente. E non poteva certo arrivare dalle chiacchiere patinate della tetta-tv», scriveva Jennifer Senior nella sua recensione del libro di memorie di J. D. Vance, discendente da una famiglia di lavoratori blue collar, cresciuto tra le macerie dell’industria dell’acciaio, in Ohio, e sfuggito miracolosamente al destino di violenza, disoccupazione, assistenza pubblica, alcolismo e droga in cui e rimasta intrappolata la sua famiglia grazie a una nonna cocciuta, una fidanzata indiana e a un paio di borse di studio.

QUATTRO anni dopo, il risultato delle nuove presidenziali prova che il libro di Vance – e tutto quello che è stato detto o pubblicato sul tema- non è servito a nulla: lo straniamento degli elettori che abitano il mondo di Hillibilly Elegy è infatti cresciuto – al punto che una buona porzione di essi si sente così poco rappresentata da credere che Joe Biden non sarà il presidente legittimo.
In questo arco di tempo, Hillibilly Elegy (Elegia americana) è anche diventato un film – in Italia forse il peggio recensito dell’anno. Un primato che non si merita di sicuro Ron Howard, autore nato nel Midwest che, oltre stato ad essere da bambino il simbolo della famiglia normanrockwelliana in tv, ha più volte rappresentato con humor e sensibilità il mondo del lavoro e l’America di mezzo, come anche la storia problematica del paese.

Eppure Hillibilly Elegy è indifendibile – il tough love di Vance tradotto in una bruttezza dell’immagine e dei corpi (il make up e le imbottiture di Glenn Close la fanno effettivamente sembrare, come è stato scritto, a Mrs. Doubtfire; Amy Adams ingrassata e urlante) per uno sforzo di naturalismo hollywoodiano che è più letterale che vero, filtrato da uno sguardo di caritatevole, ma non particolarmente interessata alterità. Come se Howard (un artigiano che sa raccontare una storia), gli attori e tutta la troupe tecnica si fossero mossi così in punta di piedi e animati di buone intenzioni che, alla fine, di questi personaggi non ci rimane niente, se non la distanza. E l’inassimilabilità. Diversamente da quello che hanno scritto alcuni, non credo che dietro al misfire di Howard e del suo cast ci sia un cinico calcolo di miserabilismo da Oscar.

LO STESSO senso di distanza ritorna infatti in un altro recente film/viaggio nell’Heartland americano, anche se molto più stilizzato. È The Prom, l’adattamento del musical di Matthew Sklar, Chad Beguelin e Bob Martin diretto da Ryan Murphy per Netflix, che ha prodotto anche Hillibilly Elegy. Partito da Atlanta nel 2016 e arrivato in cartellone su Broadway nell’autunno del 2018 per chiudere nemmeno un anno dopo, The Prom è la storia di un gruppo di attori di Broadway rimasti senza lavoro che tentano di riconquistare visibilità facendosi promotori della causa di una teen ager dell’Indiana espulsa dal prom perché si è dichiarata lesbica. Capitanata da una diva appassita (Meryl Streep, in ottima forma) la delegazione dalla liberal élite a caccia di gloria mediatica a spese del bigottismo degli abitanti di un posto tipo la Monrovia di Frederick Wiseman è rappresentata con ironia extra da Murphy che ricarica il musical del suo tocco visivo iperpatinato e della sua inflessibile visione del mondo.

NELL’HAPPY ending (un prom all gay, organizzato dalla ragazzina via social media, e a cui partecipano tutti i personaggi, convertiti in versioni migliori e più liberal di sé stessi) si respira accondiscendenza da tutte le parti. Perche’ la divisione che spacca l’America di oggi in due si traduce forse inevitabilmente anche in un problema di rappresentazione sullo schermo. Eppure Hillibilly Elegy potrebbe essere un buon titolo per gran parte dell’opera tarda di Clint Eastwood. Ma se un regista serio e attento come Howard ha fallito così clamorosamente in questo obbiettivo quest’anno ci sono stati due film che hanno saputo colmare il divario – Nomadland e Borat 2, facendoci sentire – uno con grande genero/curiosità intellettuale e umana, l’altro con la satira più dissacrante – parte non di un «noi» e di un «loro» ma dello stesso, complicatissimo e molto malandato mondo.