«Sono un uomo che ha molto sofferto nello spirito, a questo titolo ho diritto di parlare». Ancora: «Là dove altri propongono opere io pretendo solamente di svelare il mio spirito. La vita è bruciare di domande. Non concepisco un’opera staccata dalla vita. Non amo la creazione distaccata». In questi due celebri passaggi, rispettivamente tratti da una lettera a Jacques Rivière del 29 gennaio 1924 e dall’Ombilic des limbes, plaquette pubblicata nel luglio del 1925, Antonin Artaud getta le basi di un lavoro poetico e critico che, nel giro di dieci, quindici anni, trasformerà – come scrive Emauele Trevi, nel suo Viaggio iniziatico (Laterza, pp. 112, euro 10,00) – la sua opera in un fantasma quasi inafferrabile.
Il «quasi» è d’obbligo, parlando di Artaud. Perché tra gli strati di carte, appunti, lettere, bozze e disegni che compongono il suo improbabile e per molti versi impraticabile catalogo di lavoro sul delirio e dentro il delirio, si ha spesso la sensazione di cogliere «qualcosa». Che cosa è ben più difficile dirlo. Artaud chiede infatti ai suoi lettori un grado di complicità radicale, un investimento affettivo, prima ancora che intellettuale rispetto alla propria opera e alla propria vita che somiglia a una vera e propria scommessa.

«Vivere è superare se stessi», scriverà sulla soglia di un viaggio fondamentale per la propria esperienza e per l’esperienza che l’Europa aveva dell’altro da sé, dell’esotico, del selvaggio: il suo viaggio in Messico e, da lì, nella Sierra Madre. Con Artaud, osservava sul punto Elémire Zolla, «le menti più vigili scoprono che le arti tribali non sono ferine, ma parlano di stati alternativi della coscienza, non sono gridi di angoscia esistenziale, ma punti d’appoggio per attivare la conoscenza di distinti gradi dell’essere». È su questa attivazione di «distinti gradi dell’essere» che lavora Trevi, dedicando a Artaud le pagine più intense del suo libro (altre sono dedicate a Eliade e alla spedizione presso i Dogon di Marcel Griaule).

Un viaggio doppiamente iniziatico che ha una data precisa – 10 gennaio 1936 – e su cui Trevi concentra gran parte del proprio ragionamento, cogliendo a pieno il senso di quell’avventura verso un altrove assoluto, disarmante, radicale che Artaud intravvedeva nelle popolazioni Raramuri della Sierra Tarahumara, nel Messico del nord. Il 7 febbraio del ’36, dopo aver fatto tappa all’Avana, Artaud arriva a Città del Messico: da lì lancerà i propri strali contro un’Europa morta, vecchia, considerata un relitto sempre più alla deriva, da lì partirà per l’impervia Sierra Tarahumara, percorrendo in treno e a cavallo i circa milleduecento chilometri che separano Città del Messico dalla Sierra Tarahumara. Li percorrerà alla ricerca del peyote e di una «realtà assoluta». Di questa realtà e di questo viaggio iniziatico si trova traccia in D’un voyage au pays des Tarahumaras, apparso senza nome nell’agosto del 1937 sul numero 287 della «Nouvelle Revue Française».

«Il mio nome deve sparire», scriverà Artaud, giustificando così l’anonimato della pubblicazione. L’irrevocabilità della presa di parola è ancora inscritta in quel «diritto a parlare» già evocato tredici anni prima nella lettera a Rivière, ma qui in gioco non è più la volontà di lasciare una traccia di sé, semmai quella di cancellarla. Nel viaggio, come giustamente nota Trevi, è in questione un vis à vis con la morte e «la posta in gioco di questa morte è una nuova identità, conseguente a una rivelazione».
Essere arrivato da «così lontano, trovarmi finalmente alla soglia di un incontro e di quel luogo da cui speravo tante rivelazioni, per sentirmi così perduto, deserto, spodestato», scrive così Artaud nella Danza del peyote.

All’attesa si sovrappone, e spesso si contrappone, una sensazione di scoraggiamento che nella strategia narrativa di Artaud – avverte Trevi – dà luogo a un dispositivo efficacissimo. Rivelazione e svuotamento sono immagini dialettiche che preludono al superamento di un sé che Artaud vede e vuole sempre attaccato alle cose.
Ecco allora che in questa chiave risulta evidente come l’esperienza presso i Tarahumara sia un lungo viaggio iniziatico senza meta che accompagnerà Artaud fino ai suoi ultimi giorni di vita. Un viaggio condotto nel corpo e oltre il corpo, «pezzo di geologia avariata» da far «danzare alla rovescia» prima attraverso miti e riti e poi contro gli stessi («bisogna danzare i miti neri del nostro tempo», scriverà nel suo ultimo periodo parigino).

In questo senso, Trevi ha perfettamente ragione quando osserva come l’esperienza iniziatica nella Sierra Madre ritorni di continuo come un fiume carsico, attraversando anni di silenzio e internamento, fino a riapparire nell’ultimo lavoro di Artaud, Per farla finita col giudizio di dio. Un’esperienza che taglia di netto e divide la vita in un prima e in un dopo, segnando quasi quella seconda nascita che imprime una deviazione decisiva al destino. Chi ha raggiunto questa seconda nascita, conclude Trevi, «non ha più nulla da temere del falso disordine dell’esistenza. È l’uomo solo, direbbe Artaud, che gratta la musica del proprio scheletro», l’uomo che insorge e risorge.