Sono già 24 anni che esiste Tovaglia a quadri, ma anche ad aver partecipato a tante edizioni di questa buona cena sulle mura di Anghiari, ogni anno il racconto (e anche la qualità dello spettacolo) sorprende e non finisce di stupire. Perché quella che un gruppo di abitanti della città medievale in cima alla Valtiberina ogni estate imbastisce come tappa di una lucida autobiografia, non cade mai nel puro «folklorismo» o nel bozzettismo che uno si potrebbe aspettare da questo tipo di manifestazioni. Ma con occhio lucido e pungente, serve ai suoi convitati/spettatori, tra una portata e l’altra della cena (per altro della migliore tradizione toscana, e quest’anno particolarmente gustosa), un report di prima mano di quanto attraversi il nostro paese, a livello locale e nazionale, culturale e politico. Viadotta, a metà tra «via colta» e «via da tradotta» (titolo della performance di quest’anno, in scena fino a lunedì 19) parte da una sorta di nostra piaga nazionale, ovvero la trascuratezza e l’approssimazione delle infrastrutture in un paese che si vorrebbe moderno: strade, buche, immondizia, tutto di tragica attualità e insipienza, come l’anniversario del crollo del ponte Morandi proprio ora ci incute.

POI C’È LA VITA della gente comune, e le loro tradizioni (dalle canzoni alle usanze locali che si fanno routine di valori e desideri) tanto più in un’area culturalmente evoluta, e politicamente avveduta, che pure ormai non si sottrae alla fascinazione leghista che arriva a prendere il 42 per cento in località fino a ieri fedelissime alla sinistra. Ben rappresentata dalla coperta rossa alla finestra, maculata di nere paure. Ma quello della precarietà dei viadotti non è un accostamento strumentale, come ha ben presente chi arrivi da Roma, e oltre a decine di chilometri a unica carreggiata della fatidica E 45 (una vera spina dorsale d’Italia, proprio al centro tra l’autostrada del sole e quella adriatica, voluta e attuata da Amintore Fanfani), proprio allo svincolo di Sansepolcro da cui si accede ad Anghiari, spinge fuori di quel percorso i carichi pesanti che pure ne sono protagonisti (dai frutteti emiliani ai megatir dell’est europeo), per farli inerpicare su improbabili curve di stradelle di montagna, moltiplicando pericoli e inquinamento, a causa di un viadotto… pericolante.

Viadotta intreccia quelle asfittiche carenze e fragilità stradali con l’antica tradizione che proprio da queste parti faceva incrociare le antiche geniali vie romane che erano divenute fondamentali per la transumanza stagionale del bestiame, dalla via Ariminensis a quella Maremmana, che a loro volta incrociavano poi la Francigena dei pellegrini e le altre strade maestre). Insomma delle vie fondamentali per la civiltà comunitaria, che con i nomi altisonanti dei consoli romani che le avevano costruite, assolvevano in maniera decisiva a collegamenti e aperture, non solo viarie naturalmente. Ma la «topografia» del resto è solo la gabbia narrativa della serata, che scorre molto piacevole, perché tutto è raccontato con il gusto e lo spirito (e l’occhio smaliziato) di chi quei problemi, da quelli stradali a quelli politici, li vive sulla propria pelle. Difendendo però nel proprio dna una reattività che non vuole arrendersi.

L’OCCHIO CRITICO della narrazione non ha pregiudizi, e davvero in quelle scene tra caratteracci dirimpettai ce n’è per tutti. Dai facili miti televisivi che trasformano la vita in un quiz, agli animatori e promoter senza scrupoli che spacciano qualsiasi nefandezza purché a «punto 0»; dalle norme di sicurezza che per civilissimi motivi finiscono col rendere burocratico e proibitivo il minimo movimento, alla mania «animalista» che rende cani e gatti più esigenti e costosi delle nevrosi dei propri padroni (e dei veterinari interessati), o ancora la solitudine malinconica dell’animalista estrema che per la specie umana mostra assai minore interesse e disponibilità. E ancora il provinciale rombante, l’ostessa avveduta, l’onesto rigoroso che ha troppa umanità, e il camionista trafficone che risolve tutto telefonando a cellulari russi…

TUTTO si intreccia (tra le belle melodie d’epoca ripescate da Mario Guiducci e le voci, in particolare quelle straordinarie femminili) nella scrittura, scoppiettante quanto dolorifica, di Andrea Merendelli (anche regista) e Paolo Pennacchini che la tradizione di Tovaglia a quadri hanno inventato quasi un quarto di secolo fa. Ma che con la sua drammatica ironia ci tiene ben piantati nel presente, tanto da sentirne ancora l’eco pungente perfino durante la stralunata seduta dell’altro ieri al Senato della repubblica.