«Per me l’Europa era la terra promessa. Me ne ero convinto ascoltando fuori dal supermercato i capannelli di uomini, che parlavano continuamente di un luogo che non sapevo nemmeno ubicare, in cui, però avrei potuto studiare, lavorare, costruirmi un avvenire». Una possibilità irresistibile per Cissé, che all’epoca aveva 15 anni. Prendere e partire da Douala, in Camerun, per sfuggire a una quotidianità di stenti; per non gravare sull’economia di una famiglia senza reddito e con otto bocche da sfamare. «Così un giorno, circa 5 anni fa, spiegai una carta geografica, e tracciai un itinerario che da Douala portava fino alle coste della Spagna. La mattina dopo mi misi due paia di pantaloni uno sopra l’altro, qualche maglione e senza dire niente a nessuno, nemmeno alla mia famiglia, mi incamminai solo e senza un soldo in tasca».

Ha vent’anni, ora, Cissé (così lo chiamano tutti, il nome vero preferisce che non si sappia) e, mentre racconta, quasi piange; le mani si intrecciano nervose sul tavolo della sede madrilena di Red Acoge, una federazione che coordina 17 associazioni che su tutto il territorio spagnolo danno sostegno e tutela agli immigrati. Cissé ha voglia di raccontare «il suo film», durato tre anni attraverso sei diversi paesi africani. La prima tappa lo porta dal Camerun al Chad: Cissé ci arriva via Yaoundé nascondendosi nei bagagliai delle macchine in transito. «In Chad restai a lungo lavorando come muratore e mettendo da parte un po’ di soldi per proseguire il viaggio verso l’Europa». Un continente che visto da Sud appare come la terra di speranza, ma osservato dall’interno sembra invece un grumo di nazioni che languono nella stagnazione di una crisi che pare infinita. Questione di punti di vista: «In Africa la gente ride della crisi europea. La vostra crisi coincide con i nostri più sfrenati sogni di prosperità».
Dal Chad alla Nigeria. E qui le cose si fanno un po’ più complicate: «I controlli alle frontiere sono severi e ho dovuto implorare i poliziotti per poter passare; io ho avuto fortuna e loro hanno avuto buon cuore». A Maiduguri, Cissé incontra i primi compagni di viaggio. Sono passati sei mesi circa, Cissé non sa dire con esattezza, perché in questo viaggio, quasi inerziale, la nozione del tempo si diluisce nei chilometri, negli spazi desertici, nella fame, nella paura e alla fine si perde. La determinazione, invece, quella no. «Ora mi sorprendo della mia tenacia, ma durante il viaggio non ho mai tentennato». I confini scorrono sotto i piedi infaticabili di Cissé: la Nigeria, diventa Niger, e l’obiettivo è sempre lo stesso: la Spagna. Ma poi, perché la Spagna? «Consultando la carta mi sembrò il paese più accessibile e poi volevo evitare la Libia, di cui avevo sentito parlare malissimo». Anche il Niger scorre negli occhi neri di Cissé fino al deserto che lo separa dall’Algeria: per attraversarlo bisogna pagare delle guide, che stipano, trenta alla volta, i migranti nei cassoni di vecchi pick up per una traversata che dura giorni. Il viaggio, senza cibo e con l’acqua centellinata, costa 30mila franchi Cfa. Cissé scarabocchia dei calcoli su un foglietto: sono 45 euro, un mese di stipendio in Camerun. Cissé li paga con i soldi che aveva guadagnato in Chad e, una volta in Algeria, a Tamanrasset, è costretto a dare denaro anche a un’organizzazione locale che dovrebbe garantirgli protezione dai frequenti controlli della polizia algerina. Sulla carta, almeno, perché Cissé viene espulso due volte dal paese e lasciato nel deserto del Mali, non prima di essere passato sotto le manganellate della polizia algerina. «Per tornare in Algeria, bisogna comprare un passaporto malese. Non è difficile, ma servono soldi.

Tutto il viaggio è uno stillicidio di soldi. Per fortuna a Tamanrasset io riuscii a trovare di nuovo lavoro come muratore e potei affrontare anche questa spesa». Nel viaggio Cissé conosce anche alcune donne. Non c’è differenza di trattamento, soprattutto nei paesi nordafricani: «Lì, per molti, siamo solo neri; ci chiamano africani». Cissé fa uno sforzo per mettere in fila le tappe: da Tamanrasset a Orano; da Orano a Magnia, e da Magnia a Oujda, la prima città marocchina: la Spagna, finalmente, è qualcosa di più di un miraggio. Due giorni di cammino, e poi su di un treno in corsa che porta a Fez. Lì si decide il destino di Cissé. «Non avevo soldi per pagare la traversata via mare che dalle coste del Morocco mi avrebbe portato direttamente su quelle andaluse. Un giorno, però, venne una persona e mi spiegò che era possibile raggiungere il territorio spagnolo via terra entrando a Ceuta».

Cissé decide di seguire il consiglio: in treno raggiunge le montagne al di qua della rete di metallo e filo spinato che, come una cicatrice, separa l’Africa dall’enclave spagnola di Ceuta, insieme a Melilla, una piccola appendice di Europa incastonata in terra marocchina. Negli anfratti rocciosi di queste montagne, Cissé aspetta il momento buono per saltare la recinzione. È uno dei tanti che ci vogliono provare: in questo limbo di attesa e speranza, alcuni ci restano per anni, fallendo un tentativo dietro l’altro o semplicemente aspettando il loro momento. Ci sono uomini di tutte le nazionalità: «Io ho incontrato gente del Bangladesh o del Pakistan», racconta Cissé. Secondo Red Acoge 1.700 persone popolano le montagne attorno a Ceuta, cercando di valicare quella che forse è la frontiera più drastica del mondo, segnata da una rete che separa due paesi, due continenti, due mondi.
Cissé insegue il suo sogno, rincorso per tre anni attraverso mezza Africa, e una notte, con trenta compagni, decide che l’Europa aveva aspettato abbastanza: «Era una notte di nebbia per cui le guardie non potevano avvistarci da lontano. Ci avvicinammo al muro con l’intenzione di aggirarlo nuotando attraverso il tratto di mare che, a est della recinzione, separa Ceuta dalla Spagna. Quasi nessuno di noi sapeva nuotare, ma ci eravamo procurati delle camere d’aria di camion e con quelle ci gettammo in mare – racconta Cissé – Poche bracciate e arrivammo, finalmente in Spagna. I morsi delle meduse bruciavano e avevo la gola riarsa per l’acqua bevuta: quel giorno scoprii che il mare è salato».