La strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1944 segnò uno dei momenti più tragici della storia della Roma occupata dai nazifascisti. La sua stessa memoria ha più di altri episodi diviso l’opinione pubblica scindendo da un lato i fatti della storia e dall’altro le fantasie della vulgata antipartigiana.

Il settantesimo anniversario della strage, celebrato ieri dalle massime autorità dello Stato e della città da Napolitano a Marino a Zingaretti, assume un significato fondamentale e riesce non retoricamente a rendere omaggio alle vittime se collocato non solo nella memoria dei parenti ma nella storia della capitale.

Nella Roma occupata dai nazisti le formazioni dei Gruppi di Azione Patriottica (Gap) costruite in clandestinità dal Partito comunista, sotto la responsabilità del comando militare di Giorgio Amendola, rappresentarono l’avanguardia più efficace, strutturata ed efficiente della Resistenza armata nella capitale.

Organizzati da Antonello Trombadori, nome di battaglia «Giacomo», i Gap centrali si articolarono in due reti, guidate rispettivamente da Carlo Salinari «Spartaco» e da Franco Calamandrei «Cola», a loro volta composte dai gruppi operativi Gramsci, comandato da Mario Fiorentini; Pisacane, comandato da Rosario Bentivegna; Sozzi e Garibaldi di cui furono membri, tra gli altri, Marisa Musu, Maria Teresa Regard, Ferdinando Vitagliano e Francesco Curreli.

Decine di azioni di guerra

Divisa la città di Roma in otto zone operative i Gap realizzarono decine di azioni di guerra contro le truppe occupanti naziste e i collaborazionisti fascisti.

La Roma in cui agirono era quella delle deportazioni nei lager del 7 ottobre 1943 di oltre duemila carabinieri e del 16 ottobre di 1.024 ebrei del ghetto; quella delle camere di tortura di via Tasso, delle pensioni Jaccarino e Oltremare; delle fucilazioni di Forte Bravetta; della strage delle Fosse Ardeatine, del coprifuoco e ancora del rastrellamento del Quadraro del 17 aprile 1944 o della strage della Storta il 4 giugno.

Nell’anno del settantesimo anniversario della Liberazione di Roma le drammatiche vicende della capitale occupata e l’intera attività militare dei Gap sono ricostruite da un’ampia mole di documenti che l’Archivio Storico del Senato della Repubblica ha raccolto, riordinato e digitalizzato, nel corso degli ultimi tre anni, grazie alle donazioni che i partigiani ancora in vita o i loro familiari hanno fatto dei loro archivi personali. Sono stati costituiti così i fondi archivistici, aperti al pubblico, intitolati a Calamandrei-Regard; Rosario Bentivegna-Carla Capponi e, in stato di lavorazione e di prossima presentazione in occasione del 25 aprile, Mario Fiorentini-Lucia Ottobrini. I materiali documentari costituiscono, pur nelle specificità di ogni fondo e nella comprensione di un più ampio arco storico-cronologico coincidente con la vita pubblico-politica dei protagonisti, un vero e proprio archivio dei Gap di Roma e segnano un significativo passaggio di ricostruzione della storia della Resistenza nella capitale.

Dopo la «prima repubblica»

Insieme alle vicende della lotta di liberazione (dalle azioni militari alle missioni coperte con le reti dell’Office Strategic Service statunitense; dalle modalità operative clandestine ai riconoscimenti e ai processi subiti nel dopoguerra) scorrono nelle carte le questioni centrali della guerra della memoria emersa con vigore revisionista dopo la fine della cosiddetta «prima repubblica», quella nata dalla Resistenza.

Sono i documenti conservati nei fondi dei Gap a prendersi carico di destrutturare le pretestuose e pericolose argomentazioni del revisionismo storico.

Cadono così uno dopo l’altro i falsi miti della vulgata antipartigiana incentrati sulla contestazione di legittimità delle azioni di guerra, sull’infinita polemica strumentale delle destre variamente intese contro le radici resistenziali della Costituzione ed in ultimo la sostituzione della storia con le memorie individuali e le narrazioni empatiche, quelle per intenderci che ancora oggi a Roma spingono persone a giurare di aver visto inesistenti manifesti che invitavano i gappisti a consegnarsi ai tedeschi per evitare la strage delle Ardeatine come vendetta per l’attacco di via Rasella.

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Viene restituito in questo modo alla città di Roma, come ultima eredità dei padri della Repubblica, un pezzo irrinunciabile della sua storia e allo stesso tempo viene riconosciuto ai suoi figli migliori, che del peso di una scelta lacerante come quella della lotta armata al nazifascismo si vollero far carico, non tanto l’onore della retorica celebrativa quanto l’identificazione assoluta di aver combattuto dalla parte giusta. Quella di chi, come scriveva Bentivegna in una lettera degli anni settanta ad Amendola e Trombadori, in luoghi come via Rasella «c’era stato perché ci voleva stare. C’era sempre rimasto e c’è ancora».