«È una scommessa che l’Italia non può perdere». Mario Draghi, stavolta di fronte al Senato, ripete la sua sfida: «Al centro del Piano c’è l’Italia. Pensate che sarà la stessa dopo?». La stragrande maggioranza del Senato, come già della Camera, applaude. Se ci sono dubbi, e qualcuno ce n’è, emergono appena. Il premier para i colpi, consapevole di quali siano le criticità maggiori. Il metodo prima di tutto, cioè lo scarso coinvolgimento del parlamento. Draghi ricorda i tempi strettissimi a disposizione. Sottolinea «il profondo rispetto del governo per le Camere». Nega di aver mai offerto la sua garanzia personale alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: «Non lo ho mai detto. Non è il mio stile». Precisazione necessaria per stornare il dubbio che voglia essere solo lui, regista e garante, a gestire il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Parole dovute ma la realtà è che la portata della sfida e la rigidità che si profila nei controlli europei imporranno una notevole, se non totale centralizzazione, siglata peraltro dalla governance che farà capo al ministero dell’Economia.

DRAGHI NEGA ANCHE di aver dispensato pochi fondi al Sud, la critica più spesso ripetuta e serpeggiante anche nella maggioranza. «Il Sud non è stato discriminato», assicura il presidente del consiglio conti alla mano. Però qualcosa concede: «Si potrà far meglio, si potrà riparare qualche mancanza ma sostanzialmente l’impressione non è di una discriminazione colpevole». Il Pnrr è scritto. Giovedì il governo lo approverà in via definitiva, poi verrà spedito a Bruxelles. Ma ci sono i fondi europei già stanziati e mai utilizzati. Ci sono i 30 miliardi aggiunti a debito dal governo italiano. C’è soprattutto una legge di bilancio ancora tutta da scrivere. Si può scommettere a colpo sicuro che «le mancanze» che, sia pur a mezza bocca, lo stesso Draghi ammette quanto a interventi sul Mezzogiorno terranno banco quando si tratterà di aggiungere al Piano quei segmenti ancora in bianco. Ma una volta ottenuto l’ormai certo semaforo verde di Bruxelles, tra pochi giorni, il governo dovrà cominciare a correre.

IL TRATTO DA PERCORRERE subito e più velocemente sarà quello delle riforme. È quello per molti versi più delicato, perché propedeutico per gli investimenti successivi, che partiranno con l’arrivo dell’anticipo di 24 miliardi entro luglio, ma anche perché è con quelle riforme che si ridisegnerà politicamente il Paese. Dunque è lì, soprattutto ma non solo sul fronte della riforma fiscale, che potrebbero emergere nella maggioranza divisioni più serie e più pericolose della pantomima sull’ora in più o in meno di coprifuoco. Il primo decreto è già pronto. Lo ha messo a punto il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani e dovrebbe servire a semplificare i passaggi sulla transizione, appunto. Forse resterà un decreto autonomo, forse confluirà in un più vasto dl Semplificazioni a tutto campo che sarà varato in maggio. Di certo conterrà le semplificazioni in materia di Superbonus che, insieme all’impegno pubblicamene assunto da Draghi a prorogare la misura per tutto il 2023 nella prossima legge di bilancio, ha sbloccato il contenzioso con il Movimento 5 Stelle.

POI PERÒ SI ARRIVERÀ ai nodi veri, quelli spinosi. Prima di tutto la riforma del fisco, che nell’agenda di Draghi dovrebbe essere cosa fatta entro luglio. È forse la riforma più difficile, non a caso quella della quale il premier ha parlato di meno nei suoi interventi. Ma è lì che la divisione non solo tra le forze della maggioranza ma anche tra la visione di Bruxelles e quella della Lega, ma in una certa misura anche del M5S, è più profonda.

ALLO STESSO TEMPO verrà il turno della riforma della Giustizia, che sarebbe forse meno lacerante per la maggioranza se non fosse che in Italia quel fronte è da decenni quello più incandescente, dove dalla nascita della seconda Repubblica si registrano le divisioni più profonde tra i partiti che oggi siedono fianco a fianco nella stessa maggioranza: Lega e Forza Italia da un parte, 5 Stelle ma anche Pd e LeU dall’altra.

NEL CRONOPROGRAMMA del premier quella riforma dovrebbe essere completata in tre mesi. Una corsa contro il tempo. Quando all’inizio di agosto l’avvio del semestre bianco renderà impossibili elezioni anticipate tutto diventerà molto più difficile. Le riforme «divisive» Draghi deve portarle a casa prima.