Una grande finestra a riquadri si apre su un panorama vasto e indefinito: sembra una griglia per imbrigliare il cielo e abbreviare la distanza che separa lo studio di Stefano Arienti dalla sua Asola, pianura mantovana, dove è nato nel 1961. Siamo ai margini di Milano, oltre il Parco Lambro. Qui la città dà l’illusione di essere finita. Lo studio è in un vecchio casale contadino lombardo, di quelli che sembrano dimenticati dalla storia. I soffitti sono alti. C’è molto ordine e un senso di equilibrio quasi monacale. Un grande muro è lasciato libero: lì Arienti lavora le sue carte o i suoi grandi teli antipolvere. Sul lato opposto c’è Stimmung, una serie lunga e fitta di scaffali bianchi, macchiati dai colori di centinaia e centinaia di cd: sembra quasi una delle sequenze di Robert Irwin. È un’opera di Arienti. L’unica che ha diritto di cittadinanza permanente nel suo studio. «Il titolo è un omaggio a Stockhausen», racconta. «Si tratta di un work in progress: raccolgo musiche tradizionali da tutto il mondo. Le catalogo per nazioni. Proprio in questi giorni con il Lussemburgo ho completato l’Europa». Sono, per ora, 4mila cd, che alla sola vista suggeriscono l’idea di una partitura musicale visiva e che funzionano da strumenti per un affascinante workshop che Arienti tiene in questo periodo, ogni domenica, a Palazzo Te a Mantova. «È come la saldatura di un debito», racconta. «Io arrivo alle arti visive dalla frequentazione della musica negli anni ottanta. Da lì è scattata la predisposizione che poi ha segnato la mia vita».
Lo studio di Arienti non è solo un luogo in cui progettare e lavorare. È un avamposto protetto dalle interferenze del grande circo dell’arte. «Vengo dalla campagna. Non sono fatto per andare alla conquista del mondo», racconta. «Il mio è un imprinting segnato dalla laurea in agraria, con tesi sulla malattia delle piante». Eppure tra questi muri si avverte che l’isolamento non è affatto una schermatura dalle interferenze esterne. Si avverte nell’aria e nella luce stessa una fibrillazione sottile e continua, per cercare quella che lui definisce «un’estetica possibile di un mondo che vogliamo». 160 chilometri più a sud, a Modena, si può assistere alla versione visiva di quel che questo luogo evoca. È la nuova mostra intitolata Antipolvere (Museo Civico, fino al 16 luglio), in cui Arienti ha raccolto una selezione di lavori in gran parte realizzati su questi teloni poveri che vengono usati per proteggere le impalcature. «Antipolvere» indica il desiderio di togliere la patina del passato da immagini che Arienti ritiene nevralgiche per il presente. A Modena non siamo semplicemente chiamati a guardare le opere. Ci camminiamo in mezzo. Siamo tirati dentro, per assorbirne gli umori e quella dimensione estetica che nelle opere di Arienti è così naturalmente contigua a quella etica.
«Mi interessa molto la parola responsabilità», dice. «Penso che un artista possa riconoscersi tale se qualcuno accetta la sua sfida a essere artista. È un’investitura che si riceve. Non basta pensarsi artisti, proporsi come artisti. Bisogna anche trovare qualcuno che faccia il gesto di risposta di riconoscerti tale. La condizione dell’artista è sempre e soltanto una condizione condivisa, pubblica, sociale. Non ci si può nascondere dietro una maschera, dietro un anonimato o delle vie di fuga».
È anche per questo che Arienti nei mesi scorsi ha accettato la proposta lanciata da Casa Testori, un hub culturale alle porte di Milano, di confrontarsi su un terreno inedito, quello delle responsabilità dell’arte rispetto alla corruzione. Prima è sceso in campo per un confronto pubblico con il procuratore generale antimafia Franco Ruberti e con don Luigi Ciotti. Poi ha voluto essere presente alla mostra organizzata sempre sul tema, con un’opera poetica e sorprendente: Lame. Tre oggetti di taglio che vengono da un armamentario contadino e che oggi Arienti sorprende in una zona insidiosa e tacitamente aggressiva di «cambio d’uso». Com’è nel suo stile, senza salire di tono, suona però un allarme.
Lavorare su committenza
A dispetto del ricercato isolamento del suo studio, Arienti è artista strutturalmente collaborativo. Se ne ha conferma immediata nella scelta delle opere che ha voluto esporre a Modena. Gran parte nascono da un rapporto di committenza; un rapporto che non è semplicemente meccanicistico ma che si sviluppa dentro un dialogo e con momenti di percorso comune. «Mi piace lavorare su committenza. Mi stimola. Non lo sento affatto come una limitazione. Mi piace anche la committenza ecclesiale, che ultimamente si è fatta anche più frequente», spiega Arienti. A Modena sono infatti presenti gli studi per il motivo per l’altare della Parrocchiale di Sedrina, in Val Seriana. Ma sono presenti anche i lavori realizzati per Zegna e per Kartell. «Sono aziende che hanno un’immagine molto precisa, e hanno una lunga storia di attenzione al contesto umano e naturale in cui producono. Ammiro il volto di quest’Italia produttiva e in un certo senso voglio fare la mia parte…». Non c’è invece a Modena (e non potrebbe esserci…) un intervento che Arienti ama molto, realizzato per la Fondazione Zegna: un impianto wifi portato nel comune di Trivero, nel Biellese, che l’artista ha voluto marcare con opere di natura opposta, vagamente primordiale: sassi con dipinte sopra delle facce, I Telepati. «Mi piaceva che le sculture incarnassero quest’idea di comunicazione immateriale. Come se una tecnologia contemporanea quale Internet realizzasse un sogno antichissimo dell’umanità: quello di comunicare a distanza, “senza fili”».
L’incontro con Romanino
A proposito di committenza, Arienti ha avuto recentemente anche l’occasione felice di tornare a casa. Il piccolo Museo di Asola gli ha chiesto infatti un’opera che prendesse spunto dal capolavoro più periferico e «selvaggio» del Romanino: il ciclo con le tavole per la cantoria e le ante d’organo del Duomo. Come sempre nel suo stile, l’approccio è un’operazione di svelamento. «Ho incontrato Romanino sin da bambino», racconta. «Ma solo pochi anni fa ho scoperto qualcosa che mi era sempre rimasto nascosto: le ante d’organo vengono sempre tenute aperte e i retro quindi non si vedono. Romanino vi dipinse due santi, Andrea ed Erasmo, in dimensioni monumentali. Ne ho ripreso il tracciato, con inchiostro metallico, su telo antipolvere, riducendo leggermente le dimensioni per adattarmi all’altezza delle pareti del museo. Ho pensato che in questo modo tutti potessero finalmente vedere e immaginare il Romanino che non si vede». Opera di svelamento, quindi. Un’immagine aperta, che probabilmente ha a che vedere con quella possibile «descrizione di un mondo che vogliamo».