Quando in Cléo de 5 à 7 Corinne Marchand si guarda allo specchio e si toglie il cappello, il suo personaggio si trasforma da colei che è guardata in colei che guarda e che decide autonomamente della propria immagine. Questa rivoluzione dello sguardo è centrale per comprendere la poetica e la politica di Varda, cineasta e femminista. «Essere una cineasta femminista significa uscire dallo specchio e dall’immagine in cui la società ci propone di rifletterci, uscire dalla cucina, andare fuori, guardare le altre e gli altri, scegliere e trovare una propria via tra le difficoltà e le contraddizioni in cui viviamo». Il modo in cui, sin dai primi lavori, Varda filma il mondo indica una posizione etica di attenzione ai margini, ai soggetti subalterni, alla vita materiale e agli universi emotivi delle persone oppresse dal potere e dalle ingiustizie. Nel 1967, insieme a Joris Ivens, Claude Lelouch, Alain Resnais, Jean-Luc Godard e William Klein realizza Loin du Vietnam, film contro la guerra in Vietnam, e l’anno dopo parte per gli Stati uniti dove filma Angela Davis e i Black Panther.

IL SUO APPROCCIO libero si applica anche alla concezione delle relazioni e dell’amore, come è evidente in un altro film girato nel suo periodo «americano», Lions Love (… and Lies) del 1969, in cui narra un triangolo d’amore e amicizia tra la star warholiana Viva e i due autori del musical Hair James Rado e Gerome Ragni. Il film fu proiettato al New York Film Festival nello stesso anno in cui Susan Sontag presentò il suo Duet for Cannibals e le due furono invitate insieme in una trasmissione televisiva condotta dal critico del Newsweek Jack Kroll. L’intervista, visibile online, è molto divertente perché mentre il giornalista interroga Varda sulle ragioni per cui abbia scelto di filmare dei personaggi che lui definisce «grotteschi», lei gli risponde a tono dicendo che si tratta di persone reali e rivoluzionarie, confortata da Sontag che si coalizza con lei, visibilmente seccata dall’atteggiamento giudicante e tradizionalista dell’uomo. L’impegno di Varda si esprime nel suo cinema ma non si limita ad esso. Presente e attiva nel movimento delle donne, nel 1971 è tra le firmatarie del Manifesto delle 343 a favore della depenalizzazione dell’aborto, insieme a Simone de Beauvoir, Delphine Seyrig e molte altre: non si trattava necessariamente di una confessione ma di un atto politico, di una protesta contro un’ingiustizia che era anche un’ingiustizia di classe.

UNA REALTÀ esplicitata nel suo film più apertamente femminista, L’une chante l’autre pas del 1977, storia di due donne diversissime che intessono una forte amicizia sullo sfondo dei movimenti antiautoritari degli anni ’60-’70. Una, sposata e con figli, perde il marito e si ricostruisce una vita tornando a studiare e gestendo un consultorio. L’altra lascia la famiglia per dedicarsi al canto e alla vita d’artista di strada. Le due amiche si perdono ma poi si ritrovano per caso unite dalla comune militanza femminista in una scena in cui la finzione incontra il documentario. Le due sono a Bobigny nel 1972, di fronte al tribunale dove è in corso lo storico processo per aborto che portò poi alla sua depenalizzazione.
Mentre una intona canti femministi e inni all’autodeterminazione («Il mio corpo mi appartiene…»), l’altra è tra le militanti che accolgono con un’ovazione l’avvocata Gisèle Halimi (nella parte di se stessa) mentre fa il suo ingresso in tribunale. Il film è quasi un musical in cui i testi delle canzoni, scritti dalla stessa Varda, testimoniano l’ironia e la vivacità di pensiero che ha sempre, sin dagli albori, caratterizzato la militanza femminista e le sue diverse forme d’espressione. Ironia non priva di collera però perché come dichiarò la regista: «finché le donne sapranno arrabbiarsi, la loro rabbia farà muovere e cambiare piano piano la società».