Le immagini dello sgombero dei migranti dallo stabile di via Curtatone e poi da piazza Indipendenza a Roma «non possono che provocare sconcerto e dolore, soprattutto per la violenza che si è manifestata, una violenza che non è accettabile da nessuna parte». È quello che pensa il segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Parolin – il più stretto collaboratore di papa Francesco -, interpellato a margine del Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, dove ieri è intervenuto sul tema «L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo».

A Roma, precisa il cardinale, «c’era la possibilità di fare le cose bene, secondo le regole. Ora ci sarà l’impegno a trovare delle abitazioni alternative per queste persone. Penso che se c’è buona volontà le soluzioni si trovano, senza arrivare a manifestazioni così spiacevoli». Certo, «ci si poteva pensare prima», risponde ad una domanda, «perché soluzioni non mancano».

Se nel dialogo estemporaneo con i giornalisti Parolin cammina sul filo dell’equilibrio, durante il suo intervento all’interno dei padiglioni della kermesse ciellina il cardinale è più netto. «Una parte non piccola del dibattito civile e politico di questo periodo si è concentrata sul come difenderci dal migrante», dice il segretario di Stato vaticano. «Per la politica è doveroso mettere a punto schemi alternativi a una migrazione massiccia e incontrollata. È doveroso stabilire un progetto che eviti disordini e infiltrazioni di violenti e disagi tra chi accoglie. È giusto coinvolgere l’Europa, e non solo. È lungimirante affrontare il problema strutturale dello sviluppo dei popoli di provenienza dei migranti, che richiederà comunque decenni prima di dare frutto». Ma, aggiunge rivolgendosi alla platea di Cl, «non dimentichiamo che queste donne, uomini e bambini sono in questo istante nostri fratelli. E questa parola traccia una divisione netta tra coloro che riconoscono Dio nei poveri e nei bisognosi e coloro che non lo riconoscono». «Eppure – conclude, bacchettando i «cattolici della domenica» – anche noi cristiani continuiamo a ragionare secondo una divisione che è antropologicamente e teologicamente drammatica, che passa da un ’loro’ come ’non noi’ e un ’noi’ come ’non loro’», mentre «abbiamo bisogno di ricomprendere senza superficialità il tema della diversità, della sua ricchezza, in un quadro di conoscenza e rispetto reciproci».