Il Senato ha approvato ieri il decimo decreto legge sull’Ilva: 168 i voti a favore, 102 i contrari e 2 gli astenuti. Il provvedimento riguarda l’attuazione del piano di tutela ambientale e sanitaria e i diritti e gli obblighi degli acquirenti o affittuari del complesso industriale.

Tra le novità, si pone a carico della amministrazione straordinaria e non più dell’acquirente l’onere del rimborso dei 300 milioni erogati dallo Stato; si consente una proroga non superiore ai 18 mesi del termine del 30 giugno 2017 per l’attuazione del piano ambientale; si posticipa al 2018 il termine per il rimborso degli importi finanziati da parte dello Stato al gruppo al fine esclusivo di attuare il piano di tutela (entro un tetto complessivo di 800 milioni di cui 600 quest’anno e 200 nel 2017).

La vicenda dell’Ilva è da anni finita in un cul de sac dal quale sarà difficile uscire. Entro i primi mesi del 2017 si completerà la procedura di vendita o di affitto degli asset del gruppo. La scelta ricadrà su una delle due cordate in campo: quella formata da ArcelorMittal e Marcegaglia, o quella del gruppo Arvedi, Cassa Depositi e Prestiti, dalla holding lussemburghese DelFin del gruppo Luxottica, alla quale a novembre potrebbe aggiungersi il colosso turco Erdemir. Resta prioritaria la questione legata al danno ambientale e sanitario. Oggi, come riportano i dati di Arpa Puglia, la qualità dell’aria è «migliorata». È bastato spegnere alcuni impianti e dimezzare la produzione per ottenere risultati fino a 4 anni fa inimmaginabili. Ma questi dati sono relativi.

Al di là di tutti i decreti, i tarantini sono destinati a pagare per i prossimi anni i danni prodotti dall’inquinamento industriale. Che in primis porta il nome dell’Ilva sotto la gestione del gruppo Riva e precedentemente dell’ex Italsider, gestita a partire dagli anni ’60 dall’Iri. Ma porta anche il nome della Marina militare, presente con l’Arsenale dalla fine dell’800, che ha contribuito all’inquinamento del Mar Piccolo e all’ammalarsi per amianto di centinaia di operai che hanno lavorato nelle officine e nelle navi militari: le chiamano «vittime del dovere». E porta anche il nome del cementificio Cementir, nato negli anni ’60 per conto dell’Iri e di proprietà del gruppo Caltagirone dal 1992. E anche e soprattutto della raffineria Eni, presente dai primi anni ’50.

A testimoniarlo sono gli studi. Due in particolare: il Registro Tumori di Taranto, recentemente aggiornato, che copre il quinquennio 2006-2011, nel quale si evidenziano tassi di incidenza più elevati rispetto ai dati nazionali e del Sud per mesotelioma, carcinoma epatico, vescicale e polmonare negli uomini a conferma della responsabilità di esposizioni professionali. Rispetto al Sud Italia si registrano dati maggiori per carcinoma di fegato, rene, linfoma non hodgkin, prostata e stomaco nei maschi, mammella nelle donne, colon, melanoma, tiroide, encefalo in entrambi i sessi. Dai risultati evidenziati, si legge nel report realizzato dalla Asl di Taranto, «occorre sottolineare che indipendentemente dall’eventuale riduzione dell’esposizione all’inquinamento ambientale, risulterà evidente ancora per molti anni l’eccesso delle patologie oncologiche nell’area a rischio».

E poi c’è lo studio «Sentieri», realizzato dall’Istituto superiore della sanità aggiornato al 2014, in cui si parla di uno «stato di compromissione della salute della popolazione residente a Taranto, con tassi di mortalità significativamente superiori alla media regionale per la quasi totalità delle cause esaminate».

Secondo la Valutazione del Danno Sanitario realizzata da ARPA Puglia nel 2013 invece, prendendo come riferimento una produzione annua di 8 milioni di tonnellate, pur attuando tutte le prescrizioni presenti nell’AIA, è stata calcolata “una probabilità aggiuntiva di sviluppare un tumore nell’arco dell’intera vita per una popolazione di circa 12 mila residenti a Taranto”.

Ecco perché salvare l’Ilva e il futuro di oltre 20mila lavoratori tra Taranto e gli altri stabilimenti italiani del gruppo, non salverebbe comunque la salute di lavoratori e cittadini. Il rischio c’è e ci sarà e durerà per i prossimi decenni. Un rischio alla fine accettato e calcolato. Taranto oggi sconta la mancanza di economie alternative che si sarebbero potute sviluppare negli ultimi 60 anni. Perché oltre all’attuale, si paga dazio soprattutto ai danni del passato: incalcolabili.