A volte, le avvisaglie di una tempesta perfetta possono essere colte in un lampo di lucidità da un punto d’osservazione distante dal teatro in cui le forze sono destinate a scatenarsi.

Qualcosa del genere dovette succedere nel 1992 a Robert G. Kaiser, vicedirettore del Washington Post, quando, sul volo che lo riportava negli Stati Uniti dal Giappone, dopo aver assistito a una convention della Apple, si mise a scrivere di getto, a mano, un resoconto per il suo editore Donald Graham e per i suoi più stretti collaboratori al giornale. Evocò la metafora della rana immersa in una pentola d’acqua, la cui temperatura aumenta gradualmente ma inesorabilmente: l’animale non registra i piccoli cambiamenti di temperatura e finisce ucciso dall’acqua bollente, senza essere capace di saltarne fuori. «Il nostro obiettivo – concludeva – è evitare di finire bolliti mentre la rivoluzione elettronica va avanti».

Ciò che Kaiser aveva intuito nella convention Apple era la fine di un’èra, quella dei giornali cartacei e del loro modello di business basato sulla raccolta pubblicitaria e sugli annunci economici. Un paradigma che all’inizio degli anni novanta sembrava ben lontano dall’essere messo in discussione, e che invece – come ci è noto dalla nostra prospettiva – sarebbe stato travolto da una rivoluzione di portata forse non inferiore all’invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg.

Già in calce alla sua nota, Kaiser suggeriva di progettare la prima edizione elettronica del Post e di creare una versione digitale degli annunci economici: consigli lungimiranti che non furono presi troppo sul serio, o seguiti solo tardivamente, quando invece la tempestività sarebbe stata la chiave per cavalcare le innovazioni tecnologiche. Per quegli atti mancati, avrebbe pagato le conseguenze non solo il Post, ma forse tutto il settore dei giornali, che si sarebbe trovato nel giro di un decennio senza un leader a guidare il cambiamento, e a rincorrere invece con disordine e sgomento le trovate di soggetti emergenti privi della legittimazione dei circuiti tradizionali, ma capaci di ragionare fuori dagli schemi.

Ne sarebbe nata una vera e propria ‘guerra’, in cui le battaglie per la sopravvivenza economica del giornalismo si caricavano della gravosa domanda su come fosse possibile (e se lo fosse davvero ancora) portare avanti la sua missione di «custode della verità» attraverso un altro modello di sostentamento.

Jill Abramson, una delle protagoniste di questa ‘guerra’ – vissuta in prima linea come direttrice esecutiva del New York Times dal 2011 al 2014, prima e unica donna a ricoprire quel ruolo – le ha dedicato una cronaca vasta e narrativamente avvincente dal titolo Mercanti di verità, che appare in Italia con due anni di ritardo dall’edizione americana (Sellerio «Il contesto», traduzione di Andrea Grechi e Chiara Rizzuto, pp. 895, € 24,00).

Non sono due anni neutri, perché il mondo del 2019 vedeva Donald Trump ancora insediato alla Casa Bianca ed era ignaro della pandemia alle porte: la fine turbolenta del mandato del tycoon e il Covid-19 sarebbero stati banchi di prova capitali nell’eterna battaglia tra informazione corretta e «fake news», tra notizie provenienti «dall’alto» o «dal basso», il cui esito si gioca tutti i giorni sulla pelle delle nostre democrazie un po’ acciaccate. Ma alla luce di questi avvenimenti, il corposo volume di

Abramson ci appare a maggior ragione come lo sforzo genealogico necessario a ricostruire un problema destinato a ossessionarci a lungo.

L’ex direttrice del New York Times organizza la sua «cronaca di guerra» seguendo le vicende di quattro attori principali: due di essi sono le ammiraglie dell’informazione Usa, lo stesso Times e il Washington Post entrato nella leggenda del giornalismo con l’inchiesta del Watergate condotta da Carl Bernstein e Bob Woodward, colossi blasonati ma, all’inizio di questa avventura, con i piedi d’argilla; gli altri due sono i siti d’informazione BuzzFeed e Vice, le navi corsare che hanno saputo navigare i mari della rivoluzione digitale contribuendo, in molti casi, a scoprire nuovi territori e a tracciare rotte sconosciute.

È una storia, quella di questi quattro contendenti, che si inscrive nel più ampio gioco di ridefinizione del capitalismo americano all’inizio del nuovo millennio: da un lato le dinastie patrizie proprietarie dei giornali, i Sulzberger-Ochs (Times) e i Graham (Post), radicate nell’establishment, e dall’altro i maverick come Jonah Peretti (BuzzFeed) e Shane Smith (Vice), veicoli della cultura delle startup e trainati dai venture capital.

Le loro parabole si incontrano e si scontrano in punti nodali della storia – politica e tecnologica – del nuovo millennio. A meno di dieci anni dal profetico memo di Robert Kaiser, i media sono travolti dal primo evento che sfida il giovane universo dell’informazione digitale: l’attentato alle Torri Gemelle.

I giornali sembrano incapaci di far fronte alla frenetica domanda di notizie, e nel frattempo un giovane ricercatore di Google elabora un servizio in grado di monitorare più di centocinquanta fonti su tutto il web e di aggiornare la pagina ogni quindici minuti: è una prima vittoria del mondo digitale che pone l’accento sulla rapidità, sull’aggregazione e sull’interazione con i lettori piuttosto che sulla produzione tradizionale di storie.

Dopo un’altra manciata di anni, una nuova data simbolica è quella del 2007, con l’introduzione dell’iPhone, ma anche con la creazione del News Feed di Facebook, destinato a diventare sempre di più il canale privilegiato di informazione per la maggior parte degli utenti del social network.

All’epoca, i giornali cartacei Usa marciano ancora spaesati (e in parte ignari) verso la crisi economica che li costringerà, nel migliore dei casi, a pesanti tagli del personale e, nel peggiore, alla chiusura. Inoltre, non vivono uno dei momenti di maggior credito presso il pubblico, ancora scottato dal modo insoddisfacente in cui sono state affrontate, soprattutto da parte del New York Times e del Post, le menzogne dell’amministrazione Bush sull’Iraq.

Quel clima favorisce l’ascesa di fonti d’informazione alternative (come i blog indipendenti), e crea le condizioni in cui BuzzFeed e Vice possono rivolgersi ai social network emergenti come Facebook e YouTube per veicolare i propri contenuti.

La chiave del loro approccio diventa la condivisione e l’engagement del pubblico «dal basso», un aspetto che neanche Kaiser aveva ritenuto importante quando nel suo memo aveva liquidato la questione così: «La maggior parte di noi è ancora come coloro che si riunivano intorno al fuoco, ad ascoltare l’anziano che raccontava le antiche storie della tribù».

E mentre i lettori si trasformano nei veri protagonisti della vita e della diffusione di una storia, gli inserzionisti pubblicitari compiono l’inesorabile esodo dalla carta al web, costringendo i dirigenti dei giornali a intaccare il dogma della separazione tra «Stato» e «Chiesa», ossia tra vita commerciale e editoriale.

Le strategie di marketing arrivano così a impattare per la prima volta sui contenuti, costretti in parte a ripensarsi come «prodotti» concepiti per attirare il coinvolgimento dei lettori e forse un poco più lontani dall’ideale puro di salvaguardia della verità e della libertà democratica: un aspetto che avrebbe influenzato, nel tempo, persino campagne nobili e socialmente rilevanti come le inchieste sugli scandali sessuali di Hollywood, cavalcate a lungo dal Times e dal Post anche con l’intento di ampliare il pubblico femminile.

Ed è proprio in questo che si è giocata (e forse si gioca ancora) la sfida dell’informazione nell’èra contemporanea: la ricerca da parte del giornalismo di un equilibrio tra il ruolo (utopico) di «custode» della verità e quello (necessario) di «mercante» della verità.

In qualche modo, i destini dei quattro protagonisti del libro di Abramson hanno finito per convergere verso un punto di bilanciamento, che tuttavia non è dato una volta per sempre, ma è costantemente da riguadagnare. Il New York Times e il Post hanno compiuto una transizione di successo verso il modello digitale, evolvendo nelle forme e nei modelli di business, convincendo i propri utenti a pagare per l’informazione di qualità (soprattutto quando ce n’era più bisogno, ovvero durante la presidenza Trump), ma anche passando attraverso periodi di lacrime e sangue e grazie al soccorso finanziario di magnati come Carlos Slim (divenuto maggiore azionista del Times) e Jeff Bezos (a cui la famiglia Graham ha venduto il Post nel 2013).

Dall’altro lato, BuzzFeed e Vice entravano nell’età adulta e, per così dire, si tingevano un poco di mainstream, condividendo lo slancio all’impegno e alla denuncia con i loro compagni di strada più tradizionali: il premio Pulitzer 2021 a Megha Rajagopalan di BuzzFeed, per i suoi reportage sulla persecuzione degli uiguri in Cina, disegna uno scenario in cui la distinzione tra «custodi» e «mercanti» diventa obsoleta davanti alla qualità e alla potenza della storia che viene raccontata.