Finalmente sola con se stessa in macchina – strada a scorrimento veloce – una giovane donna si lascia andare al pianto. Niente, in questo tratto di film che è la sua vita, va come vorrebbe. Anzi: quello che sperimenta è un continuo urtare contro le cose, le persone, uno sbagliare e un farsi male, inadeguatezza dopo inadeguatezza, frustrazione dopo frustrazione. Poi, a un certo punto, inaspettatamente, le sue mani abbandonano il volante. È un attimo, un movimento a sorpresa, e la vediamo passare sul sedile posteriore. Ecco, ora si accuccia dietro, risvegliata dal mondo che scorre fuori, dal sole che inonda i finestrini, dal vento, mentre il suo volto si apre, si allevia, sorride. Nel frattempo, incredibilmente, la macchina continua ad andare; va.
Ad avventurarsi per il cinema di Maren Ade – la scena di cui sopra la si incontra in The Forest for the Trees (2003), un modo di dire che potrei associare al nostro «prendere un abbaglio» – può accadere anche questo, come addentrarsi nel brivido di visioni instabili, nel regno dell’inatteso, quasi alieno: sentire la guida a briglia sciolta della regista tedesca – dall’exploit di Vi presento Toni Erdmann a Cannes 2016, fino alla candidatura agli ultimi Oscar come miglior film straniero, suo, oggi, un lasciapassare per il mondo – coglierne la magia fluttuante e inafferrabile e al tempo stesso avvertire il desiderio di abbandonarsi a quel tocco, percependo non solo che «la macchina» saprà comunque dove andare, ma che sarà dolce e intimamente umano, rigenerante affidarsi a lei.
Maren Ade. Se abbiamo amato le due ore ridondanti e magnificamente imperfette di Toni Erdmann (così duttili e «spontanee» da evocare il mood del documentario), quella miscela di sentimenti privatissimi e indicibili tra una figlia e un padre, di alto e di basso, di personale e politico, quel suo squadernare e reinventare «i confini» tra i generi, quella sua ironia sanamente folle e disarmante, sarà difficile non lasciarci attrarre dalla retrospettiva sull’opera della filmmaker, approntata quest’anno da Sguardi Altrove, 24ºInternational Women’s Film Festival, la rassegna proposta dall’associazione omonima e diretta da Patrizia Rappazzo, in questi giorni a Milano, dal 12 al 19 marzo.
Inevitabilmente verrà il desiderio di dischiudere lo scrigno del percorso di Ade, nata nel 1976 a Karlsruhe, nella Germania occidentale, microcosmo che è anche il cuore delle vicende in cui si trova impigliata Melanie, protagonista di The Forest for the Trees, docente in balia del primo incarico e dell’ambientamento in una città nuova, tra impreparazione alla professione, al confronto coi ragazzi e i colleghi, alle relazioni sociali, e più ampiamente alla vita.
In questo senso, con il suo sentirsi sempre fuori posto e fuori tempo, con il suo appartamentino dove non viene mai nessuno a trovarla (tanto che, desiderando un’amicizia che l’altra non considera tale, si scopre persino hitchcockiana voyeur della dirimpettaia), Melanie sembrerebbe in apparenza lontanissima dalla Ines di Toni Erdmann, dalla sua sicurezza implacabile di regina del mondo degli affari, delle consulenze milionarie e dei tagliatori di teste.
Eppure anche quest’ultima, grazie all’assedio ludico affettivo ma anche culturale e per certi versi politico del padre, insegnante di musica dall’animo perennemente lieve e creativo, in visita da lei a Bucarest (bacino invisibile dello sfruttamento globale che il film porta alla luce), in un secondo tempo anche sotto le mentite surreali spoglie di life coach dei quartieri alti, saprà in una progressiva non solo metaforica denudazione di sé, nonché attraverso lo svuotamento di significato del proprio mortifero mondo professionale e relazionale, ricontattare le sue parti più tenere e inermi, i suoi anfratti interiori più veri.
In entrambi i casi, e anche nel terzo lavoro della trilogia di lungometraggi in visione a Sguardi Altrove, Everyone else (2009), Maren Ade accudirà i suoi personaggi con una prossimità impudica e non giudicante. Tra colori pacati e una fotografia mai compiaciuta.
Così cingerà le spalle di Gitti e Chris, trentenni in bilico tra amore e incomprensione nello specchio talora inquietante della Sardegna (dove trascorrono una vacanza nella casa dei genitori di lui). Lei esuberante e maldestra, lui intellettuale e contorto, sembreranno crollare nel confronto con una coppia di conoscenti dalla scarsa sensibilità. Ma Ade sarà sempre con loro, anche nei momenti più privati, mentre la mano-sguardo di lei sfiorerà il corpo nudo di lui, o davanti a una separazione, a un inaspettato svenimento. Finché ritroveranno parti perdute di sé in una stanza creata dalla madre di Chris, tra uccellini di vetro e antiche sentimentali canzoni d’infanzia. Ode alla goffaggine e alla inattitudine al mondo che è in noi.