Un’imprevedibile traiettoria editoriale ed espositiva sembra essere suggerita dalle Cronache dagli anni Settanta di Filiberto Menna, uscite per Quodlibet, e dai Rebus di Vettor Pisani, così chiamati da Piero Tomassoni, curatore della mostra visitabile fino al 21 dicembre alla Galleria Cardi di Milano (in collaborazione con la Fondazione Morra). Vettor Pisani è il tramite imprescindibile di tale consonanza, a cui il critico della «linea analitica dell’arte moderna» (Menna) offrì un ritratto emotivamente dimesso, mentre motivava il suo intervento sull’opera dell’artista pugliese, contestualizzandolo nel Premio Pino Pascali assegnatogli quell’anno: «esile, piccolo, bruno, provocatoriamente elegante e trasandato allo stesso tempo, Pisani sembrava voler stendere uno schermo di parole e quasi nascondere le opere esposte nella galleria».

ERA IL 1970, anno di mezzo e spartiacque tra scrittura e pubblicazione di quel Territorio magico in cui Achille Bonito Oliva tentava di pianificare in modo seminale e generazionale i «comportamenti alternativi nell’arte», tra i quali Pisani veniva contato. Ed erano quelli tempi in cui cominciava a spostarsi l’attenzione dall’opera al progetto, dall’individualità e solitudine dell’artista alla figura del critico dominus e alla scoperta della soggettività dell’opera rispetto a un reticolo di relazioni che la medesima poteva intraprendere in uno sbriciolamento estetico con le altre discipline filosofiche, sociologiche ed artistiche. Tutto ciò era riconoscibile in un aggettivo come «espansa», allora frequentemente tenuta buono per più usi. Pertanto anche agli artisti veniva consentito di far critica facendo arte, in un’interscambiabilità di ruoli concessa e voluta dai critici.

ANCORA MENNA, nella stessa cronaca, si fece portatore di uno di quei lontani sbriciolamenti che per Pisani, traslati da un piano squisitamente estetico a uno più crudelmente psicoanalitico, divenne infausta profezia, preconizzandone la tragica fine: «L’amore proibito si trasforma in cannibalismo… La consapevolezza dello scacco rivolge, allora, l’aggressività contro se stesso; Pisani distende un lungo filo metallico da una parete all’altra; sul filo scorre un cappio e al cappio è appeso l’artista, che si impicca per così dire in effigie proprio dinanzi agli occhi dello spettatore».

NEL 2011 PISANI morirà suicida a Roma, impiccandosi. Aveva 77 anni. Ora, il ventaglio di opere esposte alla Galleria Cardi ambisce a inserirsi nei due poli cronologici già tracciati, che si trovano a coincidere nell’Agnus Dei datato 1970 e 2011. Tutto sembra tenersi stando anche alla descrizione dell’opera che si trova e non sembra essere un caso nella cronaca di Menna che intravede in questa «grande balla di pelli di agnello con bandierine» il simbolo di partenza, rituale, religioso, antropologico del pensiero intellettuale di Pisani. Il rovesciamento di questo simbolo, d’apparente salvezza, che si proietta nella carriera dell’artista per più di quarant’anni lo si ritrova nell’estrema Partenza di Sigmund Freud per l’Inghilterra e Londra, forse la sua ultima opera compiuta, felicissima sintesi della propria poetica materiale; ancora una volta si insinua – nemmeno troppo tra le righe – il viaggio verso l’ignoto e la fine (un’anticipazione smaccata nella sua esplicita finalità è nel bockliano Viaggio nell’eternità costruito in quasi dieci anni, 1996-2004).

QUESTI SONO, in definitiva, i fili sottilissimi che mantengono unito in un argomentare ininterrotto il lavoro di Pisani, svolto sia nell’incedere dell’immagine recuperata tridimensionalmente nello spazio (in tal senso l’Aquila morente del 2005 si apre più a una prossima trasformazione ambientale che a un dissolvimento organico) sia nelle stampe pseudo museali e cartoline di un’ideale wunderkammer intellettuale, inaugurata dall’autoritratto PisPis che sovrappone il «com’ero» nel 1970 al «come sono» del 2010 e chiusa dagli aforismi concettuali degli anni ’80, surrealistiche e anacronistiche citazioni di opere che rappresentano un immaginario passatista sette-ottocentesco.