La rivista The Atlantic ha soprannominato il virus “la peste di Trump” per gli errori della sua amministrazione nella risposta alla pandemia.

Eppure, The Donald si vanta di aver gestito il Covid-19 meglio di chiunque al mondo. Al di là dell’ovvia propaganda trumpiana, a risolvere la coesistenza di due narrazioni alternative della pandemia non bastano i dati. In un paese con oltre 300 milioni di abitanti distribuiti in 50 stati diversi anche i dati possono dire tutto e il suo contrario. Ogni giorno si registrano stabilmente oltre 50 mila nuovi casi positivi, il massimo dall’inizio dell’epidemia. La letalità, tuttavia, è appena al 4%, persino inferiore al dato tedesco. In Texas scarseggiano i posti letto in terapia intensiva sebbene solo lì ce ne siano quasi il doppio dell’Italia. Eppure le vittime sono un terzo rispetto a quelle di tre mesi fa.

Per interpretare un quadro così complesso abbiamo chiesto aiuto al fisico Alessandro Vespignani, 55enne romano della Northeastern University di Boston. Vespignani dirige uno dei laboratori a cui si rivolge il Centro statunitense per il controllo delle malattie per disegnare le previsioni settimanali sull’epidemia.

«Prima di tutto è sbagliato guardare il dato nazionale», spiega Vespignani al manifesto. «Gli Usa sono divisi in aree distinte. C’è un’area del nordest in cui l’epidemia ha avuto un grande impatto come in Europa e poi dopo il lockdown ha rallentato molto. C’è un’area in cui il contagio sta accelerando, e altre in cui è più stabile. Quindi è necessario disaggregare i dati. Il numero di casi che vediamo oggi non ha nulla a che vedere con quelli di aprile. Oggi la capacità diagnostica è talmente aumentata che il numero di casi che emerge è molto maggiore, e include anche un grande numero di casi più lievi o asintomatici».

Ora l’emergenza si è spostata negli stati del sud.

La situazione ora è problematica in Arizona, Texas, Florida, in cui sta crescendo il numero di ospedalizzazioni e si inizia a vedere un trend al rialzo anche per le vittime. Ricordiamo che i decessi sono sempre in ritardo di 3 o 4 settimane rispetto alla crescita dei casi positivi. Sicuramente il modo in cui si curano i pazienti e le fasce di età in cui si sta diffondendo l’epidemia aiutano a tenere basso il tasso di mortalità: si è capito meglio come curarli, si affrontano i casi in maniera più precoce, le persone anziane sono più protette.

L’esperienza durissima degli stati dell’Est non è servita a fermare l’epidemia nel resto degli Usa?

Ci si dimentica spesso che gli Usa sono una federazione in cui ogni stato reagisce in maniera diversa. Gli stati che a marzo e aprile non erano stati colpiti dall’epidemia hanno deciso di riaprire con una certa fiducia, con una popolazione meno toccata da un’epidemia devastante come quella degli stati dell’est e più accomodante nei confronti del virus. Per questo ora vediamo una crescita in alcune zone: lì il numero di casi non era stato abbattuto abbastanza e le riaperture hanno dato vita a un numero di casi così elevato che ora non si riesce più a tracciarli e isolarli e né a circoscrivere i focolai. Ora bisogna capire come gestire al meglio l’epidemia in quegli stati, considerando che il nostro livello di conoscenza dei pazienti è cambiato.

Crescono i casi in America e in Africa, l’Europa sembra sotto controllo, in Australia si torna in lockdown, in Asia ci sono situazioni molto diverse tra loro. Su quale area geografica del mondo bisogna rivolgere l’attenzione in questo momento?

Una pandemia non è una cosa in cui uno si focalizza in un posto ma richiede sempre di guardare la situazione globale. La situazione globale è che in questo momento abbiamo una fase espansiva in aree che vanno dalla Russia – anche se ora inizia a prendere una traiettoria migliore – a Messico, America del Sud, Stati Uniti, fino a grandi bacini di popolazione come India o Pakistan.

Come evolverà la situazione nei prossimi mesi?

Mi auguro che da qui a due mesi, quando si avvicinerà la stagione invernale nell’emisfero nord, avremo un numero di casi molto basso in tutto il mondo. Sarebbe davvero una partita diversa da quella attuale. Purtroppo, osserviamo che in molte zone del mondo l’epidemia è ancora in fase espansiva. Per non parlare di paesi come Israele o Iran, in cui si pensava di essere riusciti a imbrigliare l’epidemia ma dove oggi possiamo davvero parlare di seconda ondata. La situazione è ancora molto complessa. Allo stesso tempo da qui all’autunno ci sono circa tre mesi e sulla scala del Covid-19 tre mesi sono un’eternità. Bisognerà dunque rivalutare la situazione alla fine dell’estate.