Tra i tanti scienziati intervenuti sulla pandemia, Alessandro Vespignani è stato uno dei pochi in grado di dire «non lo so». In realtà, è anche uno degli epidemiologi che ne sa di più. Il suo laboratorio all’università Northeastern di Boston (Massachusetts) ha analizzato e modellizzato tutte le epidemie degli ultimi vent’anni, dalla Sars del 2002 al Covid-19. Al centro del suo approccio c’è lo studio delle reti sociali, dei trasporti e dell’organizzazione della società che determinano la diffusione di virus e altri patogeni. Una prospettiva multidisciplinare in cui fondere le conoscenze dei microbiologi con i Big Data raccolti da informatici, sociologi ed economisti. Come avviene per noi comuni cittadini, anche per chi studia i dati sul campo si apre una fase nuova, con nuove domande a cui dare risposta.

 

Professore Vespignani, da ieri in Italia non è più obbligatorio indossare le mascherine all’aperto e si discute di rimuovere altre misure di mitigazione. Come interpreta questo ritorno alla normalità?

Con Omicron si era detto fin da metà dicembre che alla dinamica molto veloce di crescita dei casi corrispondeva anche una veloce fase di decrescita che sarebbe iniziata nella seconda metà di gennaio. La copertura dei vaccini e la minore severità di Omicron hanno permesso di navigare questa ondata scaricando la pressione sul sistema sanitario che va ringraziato ogni giorno. Dopo un’ondata di questo tipo è molto probabile avere una pausa considerevole dal Covid-19, specialmente durante i mesi più caldi. Il virus ha una sua componente stagionale soprattutto dovuta ai nostri comportamenti. Ed è assolutamente appropriato per i decisori sviluppare strategie per rimuovere ove possibile le limitazioni. Però queste strategie devono essere pensate accompagnando e non interrompendo la fase di decrescita dell’epidemia che vediamo oggi.

Una futura variante potrebbe essere più patogenica o più trasmissibile?

Nessuno può prevedere in che direzione si muoverà il virus. I due anni passati dovrebbero averci insegnato a essere molto cauti. In realtà non dobbiamo per forza pensare a una variante “cattivissima” o ad una “buonissima”. È molto più probabile che emergano delle varianti intermedie, che soprattutto nei mesi autunnali o invernali, si possono aggiungere al carico delle malattie respiratorie. Quello che accadrà nei prossimi mesi dipenderà molto dal tipo di mutazione che avrà il virus, dal ceppo che circolerà, dal livello di vaccinazione nella popolazione e dalla durata dell’immunità fornita dalle infezioni da Omicron e i vaccini. Molti di questi dati arriveranno ad esempio nell’emisfero sud del pianeta che affronterà il periodo freddo proprio durante la nostra estate. Le previsioni serie si fanno sulla base dei dati, e in questo momento ancora non li abbiamo.

Ci sono elementi per ritenere che un’eventuale nuova ondata farà meno morti di quella precedente?

Dobbiamo sempre ricordarci che una pandemia non ha una data di scadenza dopo la quale possiamo fare i fuochi d’artificio e dimenticarci del virus. Probabilmente ci saranno altri dossi sulla strada, ma quello che riteniamo plausibile è che quei dossi saranno meno minacciosi. Il sistema immunitario della popolazione ha avuto modo di allenarsi a combattere il virus attraverso le vaccinazioni o l’infezione e questo genera una protezione che abbiamo già visto all’opera con Omicron. La variante Omicron è molto meno severa della Delta, ma senza la protezione vaccinale ci avrebbe comunque messo in ginocchio. Anche per questo motivo bisognerà studiare la durata di questa protezione e stabilire se, specialmente per gli individui a rischio, ci possa essere bisogno di ulteriori richiami vaccinali.

Dopo l’onda di Omicron, quanto conteranno ancora le disuguaglianze globali nell’accesso ai vaccini?

Come diciamo da mesi, una pandemia finisce quando finisce in tutto il mondo. Purtroppo le diseguaglianze nella distribuzione dei vaccini non aiutano questo processo. Si possono generare epidemie locali che poi iniettano nuove varianti aiutando la circolazione del virus. Aiutare la vaccinazione dei paesi poveri è allo stesso tempo l’atto più generoso e più egoistico che possiamo pensare. Da una parte aiutiamo le popolazioni svantaggiate dall’altra ci assicuriamo per noi un futuro migliore.

Nei paesi che hanno avuto accesso ai vaccini come l’Italia, chi non è vaccinato può ancora influenzare l’impatto della pandemia?

Questa è una domanda che dipende molto dalla frazione di non vaccinati, e dal tipo di variante. Tuttavia i non vaccinati pesano enormemente sulla tenuta del sistema sanitario. Come abbiamo visto il vaccino è molto efficace nel proteggere dalla malattia grave e dall’ospedalizzazione. Più alta è la frazione dei non vaccinati e più è difficile gestire ondate come quella di Omicron. Basta vedere la differenza di effetto che questa variante ha avuto negli Stati uniti e nei paesi europei. Negli Stati uniti dobbiamo considerare che l’ondata di Omicron si lascerà alle spalle oltre centomila decessi e un milione di ospedalizzazioni. Un’enormità di sofferenza. Quindi facciamo tutti il richiamo appena possibile.