Erano anni che non si assisteva a uno scontro così aspro fra Chiesa cattolica e governo come quello esploso nella serata di domenica 26 aprile.

Alle 20.30 Conte illustra il nuovo Dpcm che prolunga il divieto di svolgere cerimonie religiose con la presenza dei fedeli – come del resto tutti gli eventi che prevedano affollamenti, dagli spettacoli alle feste private -, tranne i funerali (da celebrarsi preferibilmente all’aperto, con massimo 15 partecipanti fra i parenti più stretti).

Alle 21.30 arriva un durissimo comunicato della Conferenza episcopale italiana, con un titolo inequivocabile: «Il disaccordo dei vescovi». È fallito il negoziato delle settimane precedenti fra il governo e la segreteria generale della Cei, che aveva presentato una serie di proposte per poter celebrare le messe in sicurezza.

E i vescovi non la mandano a dire: «La Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale», mentre il decreto «esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la messa con il popolo», si legge nella nota della Cei. «I vescovi non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto». Segue, a breve giro, un editoriale di Avvenire. La decisione del governo «sconcerta, preoccupa e ferisce», scrive il direttore del quotidiano della Cei, «è una scelta miope e ingiusta. E i sacrifici si capiscono e si accettano, le ingiustizie no».

Secca la replica di Palazzo Chigi, che non scende sul terreno dello scontro, ma si limita a dire che «prende atto della comunicazione della Cei e conferma quanto già anticipato dal presidente Conte». Tuttavia «già nei prossimi giorni si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza». Quindi è prevedibile che, tranne clamorose retromarce, non il 4 maggio ma comunque a breve i cattolici e gli altri credenti – per i musulmani è appena cominciato il Ramadan – potranno tornare a celebrare.

La polemica prende quota durante tutta la giornata di ieri. Scontate le urla della destra berlusconian-melonian-salviniana contro il governo e pro Cei. Un po’ meno le critiche di alcuni esponenti del governo e del Pd che, con il deputato Ceccanti, annuncia un emendamento per consentire la celebrazione delle messe e dei culti delle altre religioni.

Scendono in campo i vescovi, in ordine sparso. Per mons. Paglia (presidente della Pontificia accademia per la vita) si tratta di una decisione «sconcertante» che «tocca il diritto alla libertà religiosa», e addirittura Paglia evoca i martiri che «nel 304 si fecero uccidere per poter partecipare all’eucaristia».

Per mons. Mogavero (vescovo di Mazara del Vallo) «il no alle messe è inaccettabile», «il governo ha scritto una pagina buia», alla base «c’è la considerazione molto grave che l’aspetto religioso sia completamente accessorio». Più conciliante mons. Lojudice (vescovo di Siena), per il quale «andare allo scontro non serve», meglio «trovare una soluzione nei limiti del possibile per recuperare una dimensione importante».

Nelle parrocchie serpeggiano malumori fra i fedeli, che si aspettavano di poter tornare subito a messa. Per gli oltranzisti cattolici della Bussola quotidiana la colpa è della Cei, che è stata troppo accondiscendente ed ora «raccoglie quello che ha seminato». Invece per il movimento Noi Siamo Chiesa «l’intervento della Cei contro il governo è arrogante: non c’è nessun attacco alla Chiesa, alla sua autonomia e alla libertà di culto», semplicemente hanno prevalso «ragioni di prudenza».

Non ci sono solo i cattolici. Qualche giorno fa le Chiese evangeliche avevano scritto alla ministra Lamorgese: pur sottolineando che «la Chiesa cristiana non è un luogo fisico ma una comunità di credenti che vive nella comunione con Cristo anche quando i tempi sono chiusi», avevano chiesto di poter riprendere «il libero esercizio del culto pubblico», nel rispetto di «tutte le norme di sicurezza». Ora, dice il pastore Luca Negro (presidente della Federazione Chiese evangeliche), chiediamo che «la ripresa venga almeno calendarizzata, come del resto le altre attività, e non lasciata all’ultimo posto».