«L’empatia è ricordare che tutti hanno una storia. Molteplici storie. E ricordarsi di fare spazio per ascoltare la storia di qualcun altro prima di raccontare subito la propria». In un saggio recente pubblicato per le edizioni Faber, On connection, Kae Tempest parla della necessità della connessione e del legame con la creatività. Non è affare esclusivo dell’arte ma ha qualcosa di più sostanziale che riguarda l’umano, nella fisionomia paventata da Tempest parrebbe auspicabile poterci vivere accanto, sperimentarne i segni, praticarne ogni sconfinamento. Mettere a punto la nostra connessione creativa può aiutarci, scrive, a stabilire una relazione più intima tra noi stessi e il mondo.
Poeta, performer, attivista e ora anche saggista, nell’agosto del 2020 Tempest ha dichiarato pubblicamente di identificarsi come persona non binaria, fino a un anno fa il suo nome era Kate e ora, nel processo che ha inteso intraprendere, è Kae.
Ieri sul palco del Teatro Goldoni, ospite della 49ma edizione della Biennale e dopo la premiazione con il Leone d’argento di venerdì in cui ha ringraziato la casa editrice e/o, il suo traduttore italiano Riccardo Duranti e Giorgina Pi che da anni insieme all’Angelo Mai porta in scena alcuni suoi testi, ha consegnato le undici «poesie parlate» contenute in The Book of Traps & Lessons, pubblicato in forma di album nel 2019 e in prima per l’Italia.
I testi inanellano luoghi e questioni care a Tempest: le litanie degli ultimi, dei diseredati, e, in più di un passaggio, della scomparsa e della restituzione di lucidità. «Ormai la distanza tra gli oggetti si misura in frazioni/ ma la distanza tra la gente è in una scala che non riusciamo a equilibrare», ne accenna in «Moneta a tre facce». E prosegue: «Quando la gente è ferita ha bisogno di dare la colpa a qualcuno/ ma guardatevi dalla paura cui non sa dare nome nessuno». C’è talmente tanta pace inquieta, in quei volti.

SI ESPANDE in quegli anfratti uno dei temi più importanti che abita a più livelli tutta la produzione di Tempest, come nell’ultima sua raccolta Un arpeggio sulle corde (Running upon the Wires composta nel 2018 e uscita poche settimane fa per e/o, pp. 135, euro 15): l’amore, o meglio la fine di una relazione e l’inizio di un’altra, insieme al guado di stare nel mezzo tra i due momenti. L’anatomia di una perdita, nello specifico di una donna, si riverbera nello sfasamento dello spazio conosciuto che si allenta estraneo, indifferente.
L’erranza luttuosa è più sofferente nel ricordo, consapevole che l’amore sia «una missione» (come pronuncia poi in The Book of Traps & Lessons) e talvolta «trappola fatta in casa». Infine un altro incendio arriva, furore silenzioso di cui non si sarebbe saputo anticipare niente, perché fuori dai pronostici. E fuori dalla ripetizione, al pari di ciò che accade nell’oralità della poesia. Alla visione romantica e immaginifica, si sostituisce qui la cerimonia carnale del piacere sessuale. Ciò che si era disordinato si ricompone, cresce di incastri umorali accanto alle tracce impraticabili del rifiuto: lo ha detto anche ieri a Venezia, con voce ferma, quando finalmente gli occhi si spalancano e ci si abbandona per ammettere che: «Questo è il giardino// Farai bene a cominciare a seminare/ o non ci sarà raccolto».
Dallo spoken word al rap e la performance, il percorso di Tempest si confronta costantemente con la scrittura, che come tale deve essere detta a voce alta per non perdere il contatto con l’oralità. Consente di nominare l’ingiustizia in cui ci si incastra a vivere, sia quella di un ragazzo infagottato che si dirige verso una scuola della periferia londinese o la grazia da Regina degli emarginati, o ancora di colui che sta «assorto in ciò che sta facendo» e colei «nata per prima che impara per ultima».

È LA MERAVIGLIA di un Tiresia contemporaneo e adolescente che scorge dietro una siepe l’aggroviglio di due serpi e accoglie l’eccedenza trasformativa, muta Tiresia e diviene donna – come racconta già Ovidio nelle sue Metamorfosi. La sapienza dell’attraversamento (che poi prevedrà un ritorno al maschile), nonostante la cecità, lo porterà a essere consultato dalle vette olimpiche. In Resta te stessa (titolo della silloge del 2014 che ne racconta la parabola, in italiano arriva nel 2018) si assiste alla vertigine del transito, aver toccato e sentito ogni cosa, e non per capricciosa protervia al cospetto degli dei, al contrario è coscienza di imperdonabilità senza poter tornare indietro, sollevare e ancora svellere memorie dolorose per arrivare fin lì, a lambirle una per una. La solitudine urbana si sostituisce nelle parole di Tempest alla bolgia dantesca in cui abbiamo incontrato l’indovino.
L’augurio poetico però si ostina, «Hold your own» ritorna anche in una delle undici poesie ritmiche di The Book of Traps & Lessons ed è testo universale così dolente e autentico da averlo regalato in videolettura nei mesi della pandemia, «quando tutto è in flusso e niente si può sapere con certezza/ tieni stretto il tuo io// tienilo stretto fino proprio a sentirlo/ scuro e denso e umido come la terra/ vasto splendente e dolce/ come l’aria».

CHE TEMPEST abbia da sempre il merito di fare interagire la mitologia con il presente è passione archeologica e filologica cui non ha più rinunciato, almeno da quando ha pubblicato Antichi nuovi di zecca (Brand New Ancient è del 2013, in italiano nel 2018). Siamo divinità, Pandora, Medea ma anche Dioniso spuntano dai sobborghi più malconci che sibilano di lievi scossoni solo a guardarsi accanto, per esempio sulla metropolitana – che una notte d’improvviso può diventare un carro infuocato – come in fila per il tram, nella infelicità o nella morte di anonimi altri, o ancora dinanzi a ciò da cui non ci si può separare, ancora nello sfruttamento della classe lavoratrice che deve sottostare a qualsiasi angheria.

QUELLA DIVINITÀ, spiega, non ha niente di eroico ma tutto di epico, ridisegna le reti invisibili che abitano le città, nuclei famigliari con scomode genealogie; ancora nomi spesso dissimili dalla propria sorte come accade a Gloria, una barista che una sera sventa un’aggressione e diventa lei sì, nel sangue, erinni che chiama tutta la sua potenza primigenia. Non c’è nessun coro a soccorrerla, né ad avvisarla. C’è solo lei, potrebbe soccombere e invece sopravvive.
Del resto, «un’esistenza completa ha bisogno di mito e senso», scrive Tempest in «Sacro elisir», poesia contenuta in The Book of Traps & Lessons. E la sua indagine si allarga, non stupisce l’adattamento del Filottete sofocleo (su cui l’ha intervistata di recente Laura Zangarini per la «Lettura» del Corriere della sera, accompagnata da un bell’intervento di Giorgina Pi, regista di Wasted e Tiresias, ne è stato scritto su il manifesto il 23/01/2020 e il 31/10/2020). La Grecia classica orienta e reincanta le pratiche, riguarda la condizione umana e non è d’altronde un unicum, in particolare per Filottete basterebbe pensare all’attenzione che gli ha dedicato una maestra lungimirante di pensiero e politica come Simone Weil.

LA DOMANDA RUOTA attorno all’empatia radicale di cui Kae Tempest parla e scrive continuamente, già in Che mangino caos (Let Them Eat Chaos esce nel 2016, l’anno successivo in traduzione italiana) dove quel congiungimento è intenzione incarnata delle relazioni contro «il mito dell’individuo». Toccare dà lo statuto dell’esistente, gli altri sensi arrivano dopo. Sia pure quelli più importanti si apprendano in seguito, dando misura della frattura in cui ci muoviamo, tra un io puntiforme e visibile e un’anima suscettibile e abissale: il riferimento è a Jung del Libro rosso, ampiamente citato in On connection, quando cioè lo «spirito del tempo» confligge con lo «spirito della profondità».
Perché il presente possa brillare, bisogna aprire il buio nella sua istanza più antica; la grandezza temporale è tuttavia anche nei colori, nelle lune rosse assetate, nel blu dei sassi, nel bianco di vestiti dentro cui si chiede perdono e talvolta si prega, nel bruno di sguardi vessati ed esausti. Il sapere delle emozioni sta lì, anche quando accenna al colore dei bordi del mondo, immaginatelo, scrive nelle prime pagine di Che mangino caos, «Il suo azzurro smorza la fitta che vi brucia gli occhi,/ i suoi contorni vi fanno venire in mente// l’amore.// Quella rotondità morbida./ La comodità di mare e terra ferma».
Continua a pulsare il nostro andirivieni oculare, scoprendoci creature imperfette e tuttavia capaci di «milioni di rivelazioni», quante sono le facce della gente, quelle che Tempest osserva. Sono rassicurazioni, resoconti che diradano nel sottosuolo, collassi che cospirano con dovizia nel corpo terrestre. E Kae Tempest sembra volerli officiare, uno per uno. Soluzioni non ce ne sono, basterebbe forse «svegliarsi/ e amare di più».