Priti Patel, ministro dello Sviluppo internazionale, tornava ieri precipitosamente da una visita ufficiale in Uganda “su richiesta della Prima Ministra” Theresa May per essere torchiata e, probabilmente, privata del dicastero. Il precipitoso rientro è dovuto a una colossale gaffe diplomatica, rivelata lo scorso 3 novembre dalla Bbc. Durante una vacanza in Israele lo scorso agosto, ignorando le più elementari norme del Foreign Office, si è fatta carico di tenere dodici incontri commerciali con vari ministri israeliani, compreso Netanyahu, incontri poi ripetutisi in settembre, senza avvertire il governo, né la rappresentanza diplomatica nazionale in Israele. Ha poi ripetutamente affermato che sia l’ufficio del ministro degli Esteri, sia lo stesso Boris Johnson sapevano della visita, cosa poi rivelatasi falsa.

La ministra che, fervida sostenitrice di Israele, puntava a rinsaldare gli scambi fa i due Paesi, è ben consapevole di quanto la Gran Bretagna abbia bisogno di nuovi partner post-Brexit. Ma si è sfrenata, proponendo di finanziare all’esercito israeliano degli aiuti umanitari a profughi siriani nelle alture del Golan, senza sapere che il governo di cui è membra non riconosce le conquiste israeliane della guerra dei sei giorni.

Patel, euroscettica Doc la cui visibilità è aumentata durante la campagna referendaria assieme ai colleghi Gove (Ambiente) e Johnson (Esteri), fa parte dei tre ultrà brexiteers che la debole May ha dovuto tenersi buoni elargendo loro ministeri-chiave. Il suo lobbyismo da freelance è sintomo di un semi-analfabetismo diplomatico imbarazzante per Downing Street. Ma, come sempre con i Tories, ha anche a che vedere con le personali mire di Patel alla leadership, giacché quella di May è ormai un involucro vuoto e tornerà presto sul mercato.

La cronaca politica britannica di questi ultimi mesi ricorda più la commedia dell’arte che le austere vicende degne della madre del parlamentarismo. Al centro di questo maelstrom di catastrofi la figura ormai tragica di Theresa May, che resta in piedi soltanto per disperazione del suo partito, mentre i suoi ministri cadono come foglie autunnali. Se non avesse cominciato a chiedersi con almeno moderata insistenza la fatidica domanda chatwiniana “che ci faccio qui?”, sarebbe preoccupante. La sua debolezza è evidente nella scelta del nuovo ministro della Difesa Gavin Williamson e soprattutto per non aver destituito Johnson, a sua volta protagonista di una leggerezza che potrebbe costare a una cittadina anglo-iraniana attualmente nelle carceri iraniane un aggravio di pena: Johnson aveva detto che insegnava giornalismo, quando invece era lì in vacanza.

 

 

FINE