Macron chiude la porta in faccia al sogno italiano di trovare una sponda a Parigi per sciogliere il nodo Tav. Conte fa il possibile per camuffare lo schiaffone e fingere che tutto vada bene: del resto è un’arte che ha avuto modo di affinare negli ultimi 10 mesi, essendo stato questa uno dei suoi principali compiti. Ma per farcela avrebbe bisogno di una qualche solidarietà, se non proprio complicità, da parte del francese. Invece niente. In nottata Macron aveva tagliato corto più brusco di come non si può: «È un problema italiano e in questi casi il Consiglio perde sempre tempo. Io non ho tempo da perdere». Ieri mattina, dopomezz’ora di faccia a faccia preceduto da un incontro tra i tecnici, Conte provava a indorare la pillola: «Abbiamo condiviso il metodo: affideremo ai ministri competenti, Toninelli e Borne, il compito di analizzare e condividere i risultati dell’analisi costi-benefici e su quella base si aprirà una discussione». E la rigidità notturna del francese? Nessun problema: «Mi ha spiegato che non voleva farsi coinvolgere in un dibattito politico interno all’Italia».

Per smentire la rosea visione, Macron ricorre alle «fonti dell’Eliseo». Le quali fanno sapere che la Francia va avanti sul progetto Tav come se nulla fosse. Come del resto era già chiaro da quando Telt aveva proceduto con la pubblicazione dei bandi concedendo all’Italia solo quel che era già in programma: sei mesi di tempo per tornare indietro senza penali. In conferenza stampa, al termine della riunione del Consiglio europeo, il presidente è appena più diplomatico: «Conte mi ha messo al corrente degli interrogativi italiani e del rapporto costi-benefici. Io gli ho ricordato che noi abbiamo prima di tutto un accordo intergovernativo e che ci sono testi internazionali che legano sia noi che la Ue e non possiamo non tenerne conto». I ministri s’incontreranno «per conoscere il rapporto e gli interrogativi italiani». Ma nulla di più e non è molto.

Prima di arrivare al momento della verità c’è ancora parecchio tempo. Ma la strada è in salita. L’ipotesi di fermare i lavori e cancellare l’accordo con la Francia è ancora in campo ma solo in teoria. Il voto sulle mozioni contro Toninelli di giovedì al Senato è stato in realtà un voto pro Tav. Le mozioni non sono passate ma è stato squadernato apertamente il rapporto di forza reale. Se si fosse votato apertamente sulla Tav, la Lega si sarebbe schierata con Pd, Fi e FdI rendendo schiacciante la maggioranza a favore della continuazione della tratta. La sola via d’uscita, per Conte, è ottenere una revisione dei costi tale da giustificare un ripensamento del governo rispetto all’attuale rapporto costi-benefici. Ma per questo la disponibilità francese è fondamentale. Lo schiaffo sulla Tav non è stato l’unico affibbiato ieri da Macron al governo italiano, né il più sonoro. Quello arriva quando si passa al piatto forte: la Cina. «E’ un rivale sistemico dell’Europa ed era necessario un risveglio perché procedevamo in ordine sparso e la Cina sfruttava le nostre divisioni». È un monito all’Italia. L’Unione deve affrontare d’ora in poi il nodo dei rapporti con Pechino con una voce sola. Quella voce, però, è essenzialmente, se non esclusivamente, franco-tedesca. La decisione di annunciare proprio in concomitanza con l’arrivo di Xi Jinping a Roma un vertice a quattro a Parigi, con la Merkel e Juncker ma senza Conte, è una risposta chiara al memorandum italo-cinese. La questione, del resto, è stata affrontata da Conte non solo con Macron ma anche con la Merkel.

L’ultimo punto all’odg nell’elenco dei nodi irrisolti tra Italia e Francia è quello dei rifugiati politici. Salvini lo adopera per commentare i colloqui, secondo il suo tipico stile: «Pensasse a ridarci i latitanti che stanno lì a bere champagne». Il premier e il presidente hanno in effetti parlato anche del superamento della «dottrina Mitterrand» ma senza alcun impegno da parte dell’inquilino dell’Eliseo.

Ancora una volta, l’Europa affronta dunque una sfida internazionale divisa e litigiosa. Con sullo sfondo un guaio anche più serio incombente, quello che ha ricordato Draghi al Consiglio: «Le aziende private non sono pronte ad affrontare l’eventualità di una Hard Brexit».