Tutto comincia nel 2005 quando Marco Bertozzi va a vivere nel grattacielo di Rimini, quel luogo della città che da ragazzino guardava come se fosse un «luna park» o un «irraggiungibile albero della cuccagna». Abitandoci però ha lentamente scoperto un altro mondo: «Mi sono reso conto di quanta ricchezza e di quanta problematicità fosse custode» racconta. La decisione di filmarlo, almeno per un appassionato di «cinema del reale» come è lui, era a quel punto quasi inevitabile.
Inizia  così l’avventura di Cinema Grattacielo, un doc eccentrico a cui l’autore, storico (e teorico) del documentario, docente di cinema, studioso di architettura oltreché regista (Profughi a Cinecittà, 2012) dedica oltre dieci anni nel corso dei quali la vita del grattacielo, dentro e fuori le immagini si intreccia intimamente alla sua e a quella degli altri abitanti della costruzione verticale nata alla fine degli anni Cinquanta.

 
Nuvole e liscio, la vertigine dell’altezza, il mare, la stravagante follia (felliniana) della costa riminese, d’altra parte la costruzione viene terminata mentre Fellini girava a Roma La Dolce vita. «È stato il grattacielo a spingerci verso questa follia» ci dice la voce dell’autore nelle prime immagini del film presentato – con menzione speciale – al Biografilm di Bologna. Sono incerte, quasi nebulose nella grana rovinata dal tempo su cui i contorni delle cose appaiono vaghi e impercettibili: il mondo dall’alto di finestre e orizzonti lontani, di una «speranza «folle e sfacciata di futuro», la stessa che in quel lontano 1959 attraversava l’Italia intera. Gli anni del boom, dell’ottimismo, del progresso che si poteva presto andare anche sulla luna… Il sindaco comunista di Rimini, oggi novantenne, aveva convinto la città, anche loro così sarebbero stati sbalzati in una nuova era.

 
E poi il tempo passa, quei sogni si svelano meno luccicanti, il grattacielo da dimora per ricchi e turisti si trasforma nell’abitazione di giovani precari, studenti, creativi, pescatori, immigrati, chi insomma cerca una casa a spesa contenuta, e la città anche se molti degli appartamenti che vediamo sono stupendi, non sembra esserne più così fiera.

 

 
L’idea di partenza, il duplice piano privato e pubblico, trasforma dunque l’esperienza alla prima persona del regista – sempre esplicitata – in una narrazione collettiva. Del nostro Paese intanto, osservato dalla lente di una provincia italiana divenuta per tutti il simbolo delle vacanze (di massa) tra gare di ballo e ombrelloni in fila sulle spiagge, bellezze e miss, divertimento per un consumo diffuso, il sapore (agro) della commedia e di un’allegria che scivola via. E degli altri abitanti che scopriamo nel corso degli anni. Ascoltiamo le loro storie, vediamo i lavori che hanno cambiato i loro appartamenti, assistiamo a infuocate riunioni di condominio ma soprattutto alla difesa di quello spazio comune nel quale, in modo diverso tutti si riconoscono: un sentimento di «appartenenza» che al verticale sostituisce la scommessa di una dimensione orizzontale condivisa.

17VISDxaperturacinema_grattacielo_MarcoBertozzi_lastre (1)

 

 
Oltre al girato del regista ci sono le immagini degli archivi, le riprese con la GoPro, l’animazione, una trama in cui la realtà scivola nel romanzesco. Bertozzi mischia, sconfina, confonde le piste, complice la consapevolezza del montaggio di Ilaria Fraioli, del grattacielo rivela l’anima, la sostanza, l’imprevisto. Suggestioni lynchane, uccelli che atterrano in un bagno, una enigmatica signora impellicciata che sembra un gatto, animali che scompaiono, cervi di peluche, maschere di asino: c’è un mistero tra quelle mura, un qualcosa di segreto e di oscuro? Poi d’improvviso ci spiazza e il grattacielo stesso diviene narratore al suo posto, dice di sé, degli anni, osserva quelle creature che si agitano dentro di lui, che parlano del suo degrado «umiliante», degli ascensori guasti, dell’ immondizia gettata dai piani alti in basso.

 
Il racconto del grattacielo, con la voce di Ermanno Cavazzoni, è ancora una volta il nostro, quello del nostro tempo illuminato dalla sua sapienza strana, dalla saggezza che deriva forse dal suo essere sospeso nel cielo, saldo suo malgrado, pieno di memorie e di vita.