Rowan Moore, critico di architettura del Guardian, ha pubblicato qualche giorno fa un articolo di argomento abbastanza simile a questo, scrivendo che l’evento di architettura più importante del 2013 è stata la battaglia di Gezi Park a Istanbul. In una città dove di spazio pubblico ce n’è davvero poco, infatti, un’intera città ha scelto la battaglia per i giardini di piazza Taksim come obiettivo simbolico per affermare il diritto alla democrazia, allo spazio laico, alla libera accessibilità dei luoghi collettivi urbani come carattere primario della convivenza civile.

Certamente una scelta radicale, soprattutto considerando il pragmatismo inglese e un’annata in cui sono «spuntati» in giro per il mondo alcuni edifici particolarmente iconici, come la Liberty Tower del World Trade Center (studio Som), lo Shard di Renzo Piano a Londra, la torre Cctv di Oma a Pechino (premiata come miglior edificio alto dell’anno nel mondo), insieme alla solita raffica di nuovi mega-musei, localizzati soprattutto nei paesi emergenti. Una scelta radicale ma piuttosto condivisibile. Se ci chiediamo infatti cosa abbia maggiormente colpito l’immaginario architettonico in questo ultimo anno difficilmente ci verranno in mente le immagini di edifici appena inaugurati, come la stazione dell’alta velocità a Reggio Emilia (Calatrava, of course), il Perez Art Museum di Miami di Herzog & De Meuron, la grande biblioteca pubblica di Birmingham dei Mecanoo, il nuovo Rijkmuseum di Amsterdam (una specie di vasca da bagno vista da sotto) o dei progetti sempre più sci-fi che i grandi studi occidentali propongono ai paperoni asiatici e dell’est europeo.

Più facilmente, dalla nostra prospettiva europea e smaliziata, ci verranno in mente eventi simbolici come quello di Istanbul, oppure l’inizio delle demolizioni delle case invendute a Madrid, voluto dalle banche per non deprezzare il resto del loro patrimonio; o il tentativo olandese di riciclare palazzi per uffici nuovi e inutilizzati in altre funzioni: o infine il tentativo ricorrente e più o meno realistico di trasformare i vuoti delle città in orti per l’agricoltura urbana. Oppure, da un punto di vista più italiano, ci concentreremo sull’assillo delle migliaia di capannoni appena costruiti e già vuoti o sul numero ancora crescente di rovine di edifici ambiziosi lasciati a metà (basta farsi un giro al neorudere della piscina di Calatrava sul Gra).

Insomma, l’architettura sulla soglia del 2014 sembra intrappolata ai suoi estremi: da un lato deliri formalistici sempre più estremi (verso Est) e dall’altro micragna economica e industriale e preoccupazione ecologica (dalle nostre parti). Molte archistar sono fiduciose di poter riempire ancora per un bel po’ i paesi emergenti di stadi che sembrano vagine (Hadid per il Qatar) e centri congressi che replicano la Morte Nera di Guerre Stellari (Oma negli Emirati), viceversa cresce in occidente l numero di quelli che dell’azzardo architettonico a tutti i «costi» cominciano a non poterne più e che chiedono agli architetti di ripartire da zero, o almeno da «zero (Nuova) cubatura».

L’impressione quindi è che sull’architettura aleggino crisi di vario genere – ambientali, politiche, sociali, ma anche estetiche, urbane e spaziali – e che agli architetti si chieda per i prossimi anni di farsi venire in mente qualche idea davvero nuova, capace di incidere sia sull’ecologia degli spazi che su quella delle relazioni. Ancora una volta in una situazione instabile che sembra mettere a grave rischio le utopie che consideriamo realizzate – la democrazia, l’Europa Unita, la pace globale, la crescita economica armonica e sostenibile – all’architettura si chiede di dare forma a nuove visioni, nuove piccole e grandi.

Non è un caso che dopo un paio di decenni di letargo il cinema abbia ricominciato a produrre le sue tipiche visioni semioniriche di città e mondi futuri (Oblivion, Elysium), dove in genere si contrappongono città-satellite (letterali, sospese nell’atmosfera) tecnologicamente ed ecologicamente perfette e una terra contaminata o trasformata in una sterminata favela sovrappopolata. Vale quindi la pena, in questo primo larvale tentativo di delineare una «guida all’architettura del prossimo decennio», vedere se qualcuna di queste utopie sia già in campo.

La prima e più diffusa tra le Nuove Utopie è certamente quella green, che vede la soluzione di tutti i problemi nella rinuncia più o meno totale all’idea di crescita, e il ritorno all’agricoltura, soprattutto all’interno dei territori urbani, come una specie di panacea sociopoliticoecologica di tutti i problemi. Expò di Milano e guerrilla gardens a parte, vengono in mente almeno due progetti simbolo: il primo, più «ufficiale» in quanto esito di un concorso, è Agropolis Munchen, un piano di sviluppo redatto dal gruppo di Jorg Schroeder per Monaco di Baviera, basato sulla riconversione agricola di molti terreni destinati allo sviluppo edilizio; l’altro, molto più visionario, è un master plan per la città di New York che Michael Sorkin, storico critico del Village Voice, si è autocommissionato otto anni fa. Del primo si realizzerà forse qualche frammento, il secondo, che estende gli orti anche in altezza, ha soprattutto il valore di un manifesto. Entrambi puntano a sovvertire una cultura economica e spaziale fondata sull’espansione edilizia.

La seconda Utopia che va diffondendosi è quella più vicina ai sogni cinematografici di cui sopra, e che affida la soluzione di tutti i nostri problemi alla tecnologia. Architettonicamente parlando è la madre di tutti i Klima, i Solar, dei pannelli solari ovunque, della domotica e della robotica, ed è legata all’ambizione di conservare tutto il possibile degli stili di vita attuali tramite dispositivi che facciano avere gli stessi risultati con minor consumo. «Una vera utopia», verrebbe da dire, mentre come immagine simbolica viene in mente il costosissimo grattacielo di Dubai (Rotating Tower) che ruota per seguire sole e venti.

Un altro fantasma che si aggira per l’Occidente architettonico è un inatteso (e apparente) ritorno alle utopie politico-spaziali degli anni ’60. Gli studi front-runners di questo approccio sono l’italo-belga Dogma e la costellazione di gruppi che ruota attorno alla rivista San Rocco. L’idea di base, anche se sintetizzare non è facile, è di recuperare l’eredità dell’architettura italiana (variamente) impegnata anni ’60 e ’70 e farne liberamente la base per un «ritorno all’ordine» (nel senso proprio geometrico e dei modelli di spazio e di città) la cui forma ha natura fortemente ideologica. In tempi di eccessi formalistici ed edifici privi di senso l’appeal di questo apparente ritorno alla razionalità è notevole, soprattutto fuori dall’Italia, ma rimangono ancora poco chiare le ragioni che permettono di riproporre un quadro ideologico vecchio di 50 anni e più come base per scelte estetiche attuali.

Oltre all’internazionale degli attivisti, che preferisce ormai identificare l’architettura non più con gli edifici, ma con azioni, eventi, performance, installazioni più o meno museali che hanno in genere per oggetto lo spazio pubblico, l’abitare e la qualità sociale ed ecologica dell’ambiente c’è poi un altro pensiero utopico che attraversa il corpus globale degli architetti. Si tratta della propensione recente esplicitata da Koolhaas (curatore della biennale di architettura che inaugura a giugno) per la preservation, che corrisponde più o meno alla nostra attitudine al Riciclo Architettonico come strumento essenziale di trasformazione delle nostre città e come patrimonio culturale specifico che l’Europa può consegnare ai paesi emergenti.

È un’utopia singolare, o piuttosto una forma strana di realismo, che ha in sé un’energia interdisciplinare e un potere visionario non meno forte rispetto alle altre proposte. Ed è inoltre intimamente legata alla cultura progettuale italiana. Fermo restando che quella della ragazza col vestito rosso a Gezi Park (peraltro una studentessa di urbanistica) resta l’istantanea architettonica migliore per il 2013.