Nel 2009 ho affrontato un mostro. Non l’ho ucciso, ma l’ho conosciuto. E ho imparato ad amarlo. Non è King Kong. Non è Moby Dick. E io non sono Jessica Lange o il capitano Achab. Per trovarlo non ho dovuto avventurarmi nella giungla o tra gli oceani. Sono uscito di casa, a piedi, a Roma. Mi sono fatto coraggio e mi sono perso, trasportato dal bisogno di esplorare dove sempre si passa e mai si vede. Sapevo che il mostro era lì, dovevo solo agganciarlo. È stato il più bel viaggio della mia vita. 300 chilometri a piedi alla ricerca del gigantesco serpente cinetico figlio del boom economico e della motorizzazione di massa, che dal dopoguerra si inabissa e riemerge tra le maree della trasformazione urbana, attraversa terre densamente abitate e paesaggi indefiniti.

Parlo del Grande Raccordo Anulare, il Gra, la più grande autostrada urbana d’Italia, una delle più grandi d’Europa. Le informazioni che avevo per identificarlo erano uno zodiaco di fantasmi: «muro di suono», «vettore di allucinazioni collettive», «dinosauro della città moderna», «sinuoso monolite orizzontale», «prassi del limite», «macchina celibe». Un altrove.

Camminando, esplorando palmo a palmo la terra di Raccordo ho capito che il Gra è un luogo. Dunque un paesaggio. Umano e urbano. Il Gra è un terrain vague che trasmette un forte senso di città, inaspettato e spaesante, insieme ultramoderno e ultra antico. Qui identità è sinonimo di contraddizione, tutto si confonde in un preteso senso di mobilitazione universale che ti fa sentire la città ovunque, in una mescolanza di vuoti veri e vuoti falsi, di pieni veri e pieni falsi che finisce per negare l’idea stessa di città che abbiamo imparato a riconoscere.

E se questo luogo, questo paesaggio fosse il centro della infinita contemporaneità di Roma? Può Roma, la Città Eterna, aspirare a diventare una credibile metafora della complessità urbana?

Queste domande hanno senso solo se le risposte non diventano scontro ideologico, che tanti danni e fallimenti ha già provocato. Possono essere l’occasione per ascoltare quella che Calvino chiamerebbe una «città invisibile, che come i sogni è costituita di desideri e di paure, anche se il filo del suo discorso è segreto, le sue regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra», e per immaginare i tanti futuri possibili di Roma. Intorno a queste domande è nato il progetto Sacro Gra (www.sacrogra.it), laboratorio di narrazione a cui hanno aderito figure molto diverse tra loro per sensibilità e linguaggi. Scrittura, cinema, fotografia, musica, teatro, memoria orale. Ognuno ha scelto il proprio autonomo percorso di approfondimento.

Renato Nicolini, forse il più importante assessore alla cultura che Roma abbia mai avuto, scomparso da poco più di un anno, è il vero ispiratore dell’intero progetto. Già molti anni fa, con il suo breve saggio Una macchina celibe (ripubblicato come contributo in chiusura del libro Sacro romano) e poi in Tanti futuri possibili, il bellissimo ritratto di 30 minuti che gli ha dedicato Gianfranco Rosi con il montaggio di Jacopo Quadri, ha dimostrato di essere uno tra i pochissimi ad aver visto la nuova città lineare raccordata.

Chi partecipa o ha partecipato al progetto si è messo in ascolto di ciò che ha trovato, una città difficile da riconoscere, frammentata e agorafobica, che vive la sua quotidianità tra implosioni e ipertrofie. La mia esperienza personale è che a camminarci dentro ci si sente un po’ Shackleton, l’esploratore inglese che nel 1914 vagò per due anni sul Pak antartico. Un luogo fatto di schegge disomogenee e coatiche, attratte dalla forza gravitazionale del Raccordo, che cozzano l’una contro l’altra generando residui, sedimenti, accumuli, improvvisi vuoti e sovrapposizioni.

Filippo Brancoli Pantera - S. Basilio

Le contraddizioni di questo territorio sono più forti che altrove proprio perché siamo a Roma, e sono talmente evidenti che sembrano annunciare qualcosa di nuovo, qualcosa che sta cambiando radicalmente il nostro modo di intendere l’idea stessa di città.

In occasione del Leone d’Oro vinto da Sacro Gra, il film di Gianfranco Rosi, alla settantesima Mostra del Cinema di Venezia, ho invitato l’allora ministro dei Beni Culturali Massimo Bray a fare un giro in terra di Raccordo. E lui ci è venuto davvero, con grande curiosità. Insieme abbiamo indagato lo spicchio sud est, da Cinecittà all’isola dei lampadari, passando per Gregna Sant’Andrea, Ciampino e l’ippodromo di Capannelle, poi siamo passati dentro il Parco dell’Appia Antica e tra i Casali abbandonati dei Torlonia, ci siamo soffermati al Laurentino 38 per finire la nostra esplorazione all’Eur. Bray scattava foto con il telefonino, chiedeva e si faceva molte domande. In particolare due: perché la Roma antica e immortale del Colosseo e quella invisibile e inascoltata del Grande Raccordo Anulare, anch’essa piena di opportunità (naturalistiche, agroalimentari, storiche, paesaggistiche) non comunicano? Perché nemmeno si riesce a generare un dialogo, un contatto, pur disponendo (anche, ma non solo) dell’opportunità straordinaria, unica al mondo per una grande capitale, di un luogo come il Parco dell’Appia Antica, meraviglioso corridoio di storia, paesaggio e natura, che parte da Piazza Venezia e arriva oltre il Gra?

Sandro Veronesi sul Corriere, prendendo ispirazione e mettendo a confronto i due film Sacro Gra di Rosi e La grande bellezza di Sorrentino, ha posto la medesima questione di Bray, con sfumature diverse: la Roma monumentale è sempre stata sinonimo di tutela, conservazione, immobilizzazione del tempo e dello spazio. La Roma della viabilità tangenziale ha a che fare con il suo contrario, con l’eccesso di dinamismo e sviluppo. Il risultato sembra essere una città involontaria, che affratella due umanità altrettanto involontarie: una retroguardia che popola un centro immobile che non dà più frutti; un’avanguardia che popola un centro mai nato, che si riproduce ciecamente, dinamico e tangenziale.

Matteucci, scrittore, tra i primi ad aderire al progetto, coautore del libro su questa Roma tutta da raccontare, avventurosa e sconosciuta, fatta di esperimenti, abbandoni, peripezie e riscatti, ha coniato il termine «arte del rammendo», utilizzato simultaneamente anche da Renzo Piano (bella coincidenza!), molto adatto a indicare una via di intervento ormai ineludibile, necessaria e a basso impatto, vicina ai cittadini raccordati e concreta quanto la loro quotidianità. Una via fatta di manutenzione, recupero e riciclo, valorizzazione, sutura e cura delle ferite di un territorio invisibile perché per troppo tempo inascoltato.

*Paesaggista, ideatore e curatore del progetto Sacro Gra