Una delle mete laterali che si potevano scegliere da Delhi prima di avventurarsi nel viaggio verso Kathmandu, obiettivo ultimo del «Viaggio all’Eden» degli anni Settanta, era un paesino himalayano che si chiama McLeod Ganj, in onore di Sir Donald Friell McLeod. È un sobborgo di Dharamsala, cittadina dell’Himachal Pradesh indiano che non fa 20mila abitanti è che è la sede del governo tibetano in esilio. A McLeod invece risiede il XIVmo Dalai lama. Ci si poteva andare benissimo da Amritsar, magari con un breve passaggio da Chandigarh – la città utopica di Le Corbusier – altrimenti da Delhi, crocevia delle varie spedizioni nella Grande Madre India. A Delhi si prende un treno sino a Pathankot, dove un altro convoglio overnight per il Nord si muove lungo chiassose stazioni punjabi, attraversate dai rituali richiami dei venditori di tè al cardamomo serviti (allora) in piccole tazze di creta, accompagnate da dolcetti di latte o pastelle fritte accovacciate in larghe foglie ricurve e cucite con filo vegetale (oggi l’ecologica ferramenta è stata sostituita da sacchettini di plastica azzurra). Da lì, attraverso un paesaggio che si snoda tra campi sempre più verdi circondati da foreste e vallate, si sale in autobus sino a Dharamsala e, infine, al piccolo paesino di McLeod Ganj dove, in un’urbanistica disomogenea e improvvisata, si affastellano i dettagli di un piccolo Tibet ricostruito in modo raffazzonato e miscelato all’architettura tipica delle cittadine indiane. La chiamano la «piccola Lhasa».

La giornata tipo prevedeva qualche localino dove fare colazione, un giro attorno ai battacchi del tempio e una guerra costante con le scimmie che popolano i dintorni della cittadina e contro cui di notte si scatenano battaglioni di cani che non sono meno pericolosi. I più coscienziosi andavano alla «Library», i più colti compravano e divoravano opere scelte di Tenzin Gyatso stampate malamente, molti altri approfittavano di un ambulatorio gratuito dove ti tastavano il polso per decidere quale pasticcio di erbe consigliarti. Rimedi che funzionavano anche se la diagnosi avveniva – per noi – in modo bizzarro: tastando il polso e determinando quindi cosa bloccasse il flusso di energia o assaggiando l’urina, metodo infallibile ma che richiedeva una visita privata a pagamento.

L’atmosfera era pervasa da una sorta di santità, o almeno così ci sembrava, ritmata dai mantra che uscivano dagli stomaci dei monaci, presenza costante e affascinante per noi giovani occidentali che avevamo barattato la civiltà dei consumi degli uomini «a una dimensione» – come l’aveva chiamata Marcuse – per incontrare la complessa e multiforme spiritualità del buddismo tibetano, che appariva davvero una via di salvezza dell’anima e che meglio si coniugava al nostro spirito laico e libertario rispetto al rigido schematismo islamico o alla ricca e troppo complessa visione del mondo degli indù. In effetti molto del richiamo del messaggio spirituale del Dalai Lama, contrariamente alle mille forme di proselitismo che alimentavano gli ashram indiani (i luoghi di purificazione che avevamo imparato a conoscere dai Beatles), sembrava accettabile anche a chi pensava che la religione fosse l’oppio dei popoli e diffidava in genere dalle tonache di qualsiasi colore fossero. Sopratutto a McLeod capimmo cosa significa «compassione», perché il Dalai lama viene chiamato «Oceano di saggezza» e perché lui e la sua gente si rifugiarono in India nel 1959. Delhi all’epoca, alleata dell’Urss e fieramente anticinese, accolse Tenzin Gyatso più per calcolo politico che per «compassione» salvo poi scaricarlo. Come avviene in questi anni che i due colossi asiatici si sono riappacificati con i primi accordi sulle frontiere e mettendo in un cantuccio la «questione tibetana», come si è visto nel 2008 quando Lhasa ha tentato forse la sua ultima ribellione. Un canto del cigno oscurato in tv dalle Olimpiadi.

Gli ashram, luoghi di meditazione, erano di solito riservati alla truppa meno pragmatica e più spirituale del Viaggio all’Eden. Coloro che avevano preso una sbornia trascendentale dopo anni di lotte nei quartieri dove la pratica sociale e la ragion politica avevano trionfato, anche troppo, sulle passioni del cuore e dell’anima. Tanti erano andati in cerca di Babaji, il maestro che non ha ombra, o di qualche altro santone che sistemava i suoi adepti nell’ashram personale che, a volte finiva, per assomigliare a un bed&breakfast. Esperienze che si sono andate trasformando, in certi casi, in un nuovo tassello da aggiungere alle mete di un turismo di massa sempre meno frikkettone e che ha trasformato anche l’India profonda in un depliant della Franco Rosso. Altri si accontentavano delle perle di saggezza che, sotto un ampio baniano dalle radici che come intestini escono dalla terra, calavano centellinate dalla bocca di qualche sadhu seminudo di Rishikesh che, tra un chilum e l’altro (un minicamino di creta in cui fumare la ganja, l’erba indiana) suggeriva il viaggio interiore che ognuno doveva fare seguendo le sue inclinazioni e secondo le antiche prescrizioni della millenaria tradizione indù. Altri ancora si accontentavano solo della ganja o dell’oppio statale che veniva venduto, fino a non molti anni fa, in piccoli baracchini sulla strada con tanto di timbro governativo. Era il male minore visto che tanti loro fratelli si erano persi con la raffinazione del frutto oleoso del papavero: la morfina.

La morfina in India aveva due capitali: Benares e Delhi. Per estremo paradosso, la città dei santoni (che come abbiamo visto nascondeva anche le terribili tensioni tra comunità religiose) era la patria di questa polvere dal colore rosa che si trovava con facilità e senza bisogno di far troppe domande. A Delhi non era più difficile e anche la capitale aveva il suo National Hotel, l’albergo dei disperati all’ultimo stadio che già avevamo incontrato a Peshawar. Il Crown Hotel, che di coronato ha solo il nome, esiste ancora. Si trova alla fine di Chandni Chowk, la via più trafficata del mondo che, nel cuore della vecchia Delhi, si snoda dal Forte rosso sino a una piccola moschea attraverso un paesaggio umano che la «Shining India» non è riuscita ad intaccare. In fondo al lungo viale, affollato di commercianti di ogni tipo, vacche sacre al pascolo, intere famiglie a passeggio, mendicanti con ogni sorta di guai ben esibiti, fedeli di ogni religione in cerca del proprio tempio, si svolta a sinistra e, prima di imboccare una piccola stradina, si salgono le scale di un albergo che ha fatto epoca.

Allora al Crown, come al National di Peshawar, i più reietti – quelli cioè rimasti senza una rupia – riparavano in piccoli stambugi sul terrazzo dove il caldo tropicale di Delhi trasformava le loro cellette di lamiera in roventi inferni che solo la frescura notturna riusciva in parte a lenire. Al Crown c’erano frotte di junkie di ogni tipo, razza, Paese. Soprattutto uomini, che passavano la giornata a bollire su un fornelletto le siringhe di vetro in cui aspiravano la «morfa» liquefatta in un cucchiaino. Dopo la «pera» stramazzavano sul letto completamente paonazzi per la botta di un «flash», il colpo dello stantuffo nella vena, che aveva un effetto «a spillo», come se mille piccoli aghi ti pungessero in ogni parte del corpo. La polizia tollerava e solo ogni tanto decideva perquisizioni generali, avvertendo forse prima il proprietario dell’albergo che magari poteva così disfarsi di qualche ospite ormai non più solvente. La morfina indiana, come la Merck di Peshawar, fu l’anticamera dell’arrivo dell’eroina, la cui raffinazione più complessa impiegò qualche anno prima di ragiungere – più tardi che in Occidente dove arrivava dal Sudest asiatico – anche l’India.

Oggi anche questo fiorente mercato è cambiato. Il re incontrastato della piazza è l’Afghanistan dove astuti trafficanti, con l’avallo dei talebani e del governo, hanno impiantato laboratori in grado di raffinare eroina a prezzi stracciati. La produzione di oppio ha superato quella di Pakistan e India e soprattutto della Birmania, arrivando a coprire il 90% del mercato. La guerra ha alimentato il commercio di un prodotto che crea larghi margini di guadagno e che, in parte, finanzia guerriglia, signori della guerra e funzionari corrotti. L’eroina afgana arriva sino a casa nostra o nelle strade di Mosca ma adesso è merce comune anche in quelle di Kabul dove è sempre più facile vedere giovani tossicomani. Quando la polizia li arresta, se non vanno in galera, c’è l’ospedale psichiatrico. La cooperazione internazionale si è dimenticata di questi disperati, anche loro figli dell’ultima guerra afgana.

Se il Viaggio all’Eden prevedeva, sulla rotta classica, una fermata a Delhi e una a Benares, le deviazioni erano all’ordine del giorno. Chi andava ad Agra a vedere il Taj Mahal, il mausoleo che Shah Jahan dedicò alla sua favorita Mumtaz Mahal morta prematuramente, chi a Sarnath dove Siddhartha Gautama fece la sua prima predicazione, chi scendeva in Kerala, chi guadagnava l’Orissa, chi tentava – allora invano – di raggiungere le isole Andamane, chiuse agli stranieri per motivi militari e oggi nuovo ricettacolo del turismo indiano. Poi c’era Sri Lanka o le isole Maldive. Ma qui rischieremmo di sganciarci dalla rotta solenne che portava in Nepal. Il treno per Benares (800 km) partiva alle 20 e 10 dalla stazione di Old Delhi. Da lì, al costo di 15 rupie (due dollari), si proseguiva per Raxaul (350 km), ultima stazione prima della frontiera nepalese. Pur essendo, rispetto ai nostri fratelli indiani, assai più ricchi, come studenti avevamo diritto a una riduzione del 50%. Il vecchio libretto di appunti sentenzia: «Fare le riduzioni la mattina per la sera». Il grande viaggio stava arrivando al capolinea.