Cinque anni fa, a seguito del disastro petrolifero occorso nel Golfo del Messico, il governo Berlusconi decise di vietare la ricerca e l’estrazione di petrolio nei mari italiani entro le cinque miglia marine. Questa previsione non era rivolta solo al futuro, ma – per così dire – anche al passato. Nel senso che il divieto avrebbe trovato applicazione anche ai procedimenti in corso: a procedimenti avviati, ma non ancora conclusi con il rilascio di un permesso di ricerca o di una concessione per l’estrazione.
Due anni dopo, il governo Monti interveniva nuovamente in materia con un decreto-legge (il «decreto sviluppo»), stabilendo che quel divieto – concernente ora sia il petrolio sia il gas – fosse esteso ovunque alle dodici miglia marine. Con una precisazione, però. Il nuovo divieto avrebbe riguardato solo il futuro e non il passato. Nel senso che non avrebbe trovato più applicazione ai procedimenti in corso. L’obiettivo del governo Monti era assolutamente chiaro: occorreva far ripartire i procedimenti bloccati dal governo Berlusconi. Venticinque in tutto, tra i quali quello su «Ombrina mare» in Abruzzo e quello su «Vega B» nel Canale di Sicilia. Ai quali, nel prossimo futuro, si aggiungeranno quelli relativi alle attività di ricerca che ha in serbo la società Spectrum Geo: un progetto enorme destinato ad esplorare i fondali del mare Adriatico per 30 mila chilometri quadrati e che, terminata la fase della ricerca, verrà ulteriormente spacchettato in numerosi progetti di estrazione.
Nel 2012, il Coordinamento nazionale No Triv scrisse ai parlamentari della Repubblica, chiedendo loro di non convertire in legge il «decreto sviluppo». Inutilmente. Caduto il governo Monti e apertasi la nuova legislatura, la maggior parte delle forze politiche presenti in parlamento decise, allora, di presentare un progetto di legge di modifica di quel decreto. Primo fra tutti il Pd. Ma, ancora una volta, inutilmente.
Le Commissioni ambiente di Camera e Senato vollero, quindi, impegnare politicamente il governo a rivedere la posizione dello Stato in fatto di estrazioni petrolifere. Per l’ennesima volta, inutilmente. In tutta risposta, di lì a poco il governo Renzi avrebbe adottato il decreto «Sblocca Italia». Più chiaro di così.
Ora, è proprio in virtù dello «Sblocca Italia» che la questione si è fatta più spinosa, giacché con tale decreto il governo ha stabilito che, su richiesta delle società petrolifere (e lo hanno effettivamente richiesto), il ministero possa convertire i procedimenti in corso nei nuovi super rapidi procedimenti previsti dallo «Sblocca Italia»: procedimenti, cioè, destinati a chiudersi entro 180 giorni con il rilascio del «titolo concessorio unico», che legittimerà i concessionari a cercare ed estrarre idrocarburi sulla base di un unico titolo.
Di fronte al perdurare di questa situazione – che negli ultimi mesi ha conosciuto una incredibile accelerazione dei procedimenti in corso e l’adozione di numerosi decreti di compatibilità ambientale finalizzati all’ottenimento dei titoli di ricerca e di estrazione del petrolio entro le acque territoriali – l’alternativa è ormai secca.
O si accetta passivamente questo stato di cose o si decide di rovesciare rapidamente la situazione con gli unici strumenti che l’ordinamento giuridico mette a disposizione: un decreto-legge che vieti la conclusione dei procedimenti in corso (ma qui entreremmo nel campo della fantascienza) oppure un referendum abrogativo dell’articolo 35 del decreto sviluppo, la cui richiesta di indizione deve essere depositata entro il prossimo 30 settembre, in tempo utile perché si voti prima che i procedimenti giungano a conclusione. Tertium non datur.
È questo il motivo per cui il movimento «Possibile» ha deciso di accogliere, tra gli otto quesiti referendari già depositati in Cassazione, anche quello sul decreto sviluppo. Ed è per questa stessa ragione che il 6 luglio scorso il Coordinamento Nazionale No Triv e l’associazione A Sud hanno ritenuto di dover inviare una formale lettera ai Consigli regionali, affinché provvedano a deliberare (e successivamente a depositare) una richiesta referendaria su tale decreto entro il 30 settembre 2015 (sono sufficienti cinque delibere regionali). Una richiesta, si badi, che non è rivolta a questo o quel partito politico, ma che è indirizzata alle istituzioni territoriali, dove siedono pressoché tutte le forze politiche italiane. Certo, si tratta di una strada difficile da percorrere, ma difficile non vuol dire impossibile. E in fondo sarebbe anche giusto così: sarebbe giusto che siano i cittadini a decidere se occorra definitivamente rassegnarsi o se, al contrario, sia giunta l’ora di assegnare ai nostri mari un destino diverso.
(*) costituzionalista