Bergen Assembly è un modello di evento variabile che, dal 2013, si svolge ogni tre anni a Bergen, sulla costa occidentale della Norvegia, e si interroga sul formato della biennale d’arte contemporanea. La seconda edizione di Bergen Assembly si è aperta a febbraio di quest’anno. Si caratterizza per un approccio spiccatamente partecipativo, che, fino a dicembre, coinvolgerà la comunità locale in un ciclo inesauribile di eventi: mostre, incontri, proiezioni, conferenze, e performance. Bergen Assembly 2016, infatti, opera come un unico work in progress, a cura di tre direttori artistici diversi: il musicista, compositore e sound artist Tarek Atoui, il progetto curatoriale Praxes (Rhea Dall e Kristine Siegel), e il collettivo freethought (Irit Rogoff, Stefano Harney, Adrian Heathfield, Massimiliano Mollona, Louis Moreno e Nora Sternfeld). «The Infrastructure Summit» è l’evento a cura di freethought che, lo scorso week end, ha aperto il programma di settembre della kermesse, mentre performance, dj set e mostre si svolgevano in tutta la città. Il Summit in parte riassume il lavoro intrapreso dai direttori artistici e la relazione che Bergen Assembly 2016 ha stabilito con la sua storia, il luogo, ma soprattutto con il pubblico- che non gradì l’edizione di tre anni fa, considerandola un evento di élite. «In qualità di accademici e ricercatori, ci siamo chiesti come possiamo relazionarci ai contesti in cui operiamo», ha spiegato Massimiliano Mollona, uno dei membri di freethought, autore, filmmaker, antropologo e senior lecturer al Department of Anthropology alla Goldsmiths University of London.

A partire dal formato delle conversazioni e dei seminari che si sono svolti ogni tre mesi, per due anni, in spazi diversi della città, freethought ha esaminato il concetto di «infrastruttura», per un uso critico del termine nel contesto culturale e creativo. E infatti, «The Infrastructure Summit» nasce come piattoforma discorsiva – un «museo continuo», ossia un’istituzione «ideale» che ospita conversazioni continue.
Il Summit ha ospitato i contributi di più di una decina di guest speakers internazionali: educatori, ma anche artisti visivi, curatori d’arte contemporanea, filmmaker, architetti, urbanisti, scrittori, nel corso di un vero e proprio «vertice» di eccellenze dal mondo accademico internazionale. E così, a partire dagli strascichi della cosiddetta Institutional Critique, che si mescola a elementi di pedagogia radicale, Nora Sternfeld (educatrice e curatrice, Professor alla Aalto University, Helsinki) e Bonaventure Soh Bejeng Ndikung (nel team di curatori della prossima Documenta a Kassel, ma con una formazione scientifica) hanno affrontato il concetto di «Para-Museum», che mette in discussione le infrastrutture fisiche e concettuali del museo, inteso come istituzione culturale tradizionale. Proseguendo nella direzione di una critica istituzionale, e della Biennale come infrastruttura rappresentativa del sistema contemporaneo, Massimiliano Mollona e lo scrittore Tom McCarthy, autore di Satin Island (2015) e del più noto Remainder, pubblicato dieci anni prima del nuovo romanzo, hanno introdotto il concetto di creazione culturale, in particolare in relazione all’oggettivizzazione del sapere e della politica della scrittura.

Sull’idea di pratiche di improvvisazione e di infrastrutture dei sentimenti sono intervenuti invece Stefano Harney e Fred Moten, autori di «The Undercommons: Fugitive Planning and Black Study». Moten, che da anni conduce un lavoro sul jazz e politiche black e afroamericane, ha introdotto il concetto di infrastruttura invisibile attraverso pratiche di improvvisazione. Le infrastrutture invisibili sono state anche al centro della lecture di Elizabeth Povinelli, professor di Antropologia e Gender Studies alla Columbia University, che ha presentato un intervento più astratto, sul concetto di trailing (di residuo) nelle infrastrutture. L’intervento di Tiziana Terranova sulle forme di aggregazione politica nel concetto di networking come infrastruttura ha affascinato per i temi affrontati, ma anche per la fluidità e la chiarezza. A rileggere il concetto di infrastruttura attraverso la geografia e l’urbanistica ci ha pensato invece l’urbanista inglese Andy Merrifield, la cui idea di «shadow citizens» rappresenta una chiave di lettura fenomenologica delle forme di resistenza in relazione agli spazi urbani.

In chiusura del Summit, Irit Rogoff, autrice, educatrice, curatrice e fondatrice del Dipartimento di arti visive alla Goldsmiths University of London, ha definito la ricerca come un amalgama di conoscenza che, per citare uno degli intenti di Bergen Assembly, «assembla» esperienze radicali (Sternfeld), politiche (Merrifield, Povinelli, Terranova), ed elementi di fiction (Mccharty, Mollona), ad esempio. Se messe in relazione, queste ultime possono produrre effetti ben visibili.