Volge al termine l’anno britannico vissuto pericolosamente per eccellenza: un anno di crisi costituzionali, di governi di minoranza, di cruciali voti di fiducia posticipati. Un anno nel segno, fatidico e traumatico, dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea altresì noto come Brexit.

Due anni e mezzo fa, il 23 giugno 2016, il 51,9% dei britannici votava al referendum per l’uscita dall’Ue contro il 48,1%. Secondo l’attivazione dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, avviata dalla premier (alla guida di un governo sostenuto a malapena dai dieci deputati unionisti nordirlandesi del Dup) Theresa May, il Paese dovrà uscire il 29 marzo 2019. Ma non si sa ancora esattamente su che basi e con quali sviluppi.

Dopo mesi di logorante trascinamento di un accordo sull’uscita nato morto, stipulato in due anni di negoziato dal governo da May con Bruxelles, ora la parola spetta al Parlamento (prevalentemente eurofilo), in una crisi costituzionale che lo vede contrapposto al governo (prevalentemente euroscettico). Si voterà nella settimana del 14 gennaio. May, che sinora ha collezionato un’impressionante serie di sconfitte in aula – oltre all’essere sopravvissuta a una mozione di sfiducia mossale dal suo stesso partito – è probabile perderà di nuovo non avendo i numeri. L’accordo, infatti, così com’è scontenta tutti, euroscettici e eurofili, uniti nel lamentare una «limitazione della sovranità» del Regno Unito relata allo status del confine tra Irlanda e Irlanda del Nord dopo l’uscita.

Si aprono dunque scenari da tregenda, soprattutto il cosiddetto no deal, in altre parole un’uscita drastica dal mercato unico e unione doganale europei che minaccia, se non di mettere in ginocchio l’economia nazionale, di comprometterla seriamente. In tutto questo il Labour di Jeremy Corbyn ha scelto una passività strategica che fa inferocire la fazione interna al partito – corrispondente ai centristi post new-labour – che, assieme a altre realtà transpartitiche, preme per un secondo referendum, ripetutamente escluso da governo e opposizione ufficiali. Lo scopo sarebbe andare ad elezioni anticipate e vincerle per rinegoziare tutto. Nel frattempo la prospettiva di razionamenti di generi di prima necessità e file chilometriche di Tir a Dover è più realistica che mai.