Chaplin.+Tempi+moderni
Se il senso più profondo della poesia si radica nelle forme dell’esistenza, la poesia di Fabio Franzin emerge dal duro territorio del Nord Est. Sta nella casa, nel campo, nel reparto, e scorre decisa su un doppio binario: da un lato la memoria e il legame con le radici, dall’altro lato il lavoro e l’esperienza contemporanea del lavoro in fabbrica.

È il Nord Est, ma è come un dappertutto. Con Sesti/Gesti, raccolta edita per puntoacapo (pp.160, euro 16), Franzin avvia la sua dichiarazione di poetica già dal titolo Sesti/Gesti:  per Franzin scrivere poesia è una forma d’agire, si tratta di gesti che fioriscono in parola. Attraverso le sette sezioni della raccolta, Franzin ci porta con sé nella dimensione aurorale di gesti umani semplici, dentro e fuori dal luogo di lavoro verso la comprensione di un produrre inverso, opposto all’idea di un produrre per salario, come se il linguaggio poetico legittimasse un movimento «contrario» alla fabbrica: come se la parola poetica portasse finalmente alla sospensione di ogni automatismo, allo sganciamento da ogni ingranaggio.

Come se la parola poetica coincidesse col gesto improvviso di chi interrompe una catena. Come l’uscita da un’indifferenza, come un monito ai rassegnati: «gli fa lo stesso che sia bianco o nero, pieno o vuoto, … / gli fa lo stesso tutto…» Là dove molti vivono in un torpore mortale, il poeta reagisce, nel vero senso della parola, cioè agisce ancora, scrive. Sesti/Gesti è poesia scritta in doppia lingua. La prima lingua è il dialetto che si parla ancora nella Sinistra Piave, l’area compresa tra i fiumi Piave, Livenza e Monticano, ed è l’idioma che si parla in casa. La seconda lingua è quella che s’impara a scuola, l’italiano parlato nelle aule e scritto nei libri. Franzin assume questa duplice forma come se le due lingue fossero le rive opposte dello stesso fiume: se ciascuna riva segna la sua terra, le due rive insieme fanno scorrere il fiume. Nel dire, la poesia come gesto, Franzin fa risuonare tra le due lingue, un inesausto inno alla mano intesa come il primo strumento dell’umano agire.

Sullo sfondo c’è la casa, la fabbrica, la natura e gli umani sentimenti, resistenti come i movimenti delle mani. Quel gesto di saluto dei compagni di lavoro, per esempio, solo un gesto di saluto: erano precari, si sapeva. «Gli scadeva a fine / mese, tra tre giorni. e ora ciao. / Gesti. Sesti, dicono a Livenza. I iera co’ noàntri da sie mesi…».

Molte figure entrano nei versi: il figlio, il padre, la moglie, un pescatore, un dipinto di Monet. L’anziana che con la mano ruba tre vasetti di yogurt. Il direttore che firma la denuncia. Reati? È un percorso iniziatico, una ritmica carrellata tra mani che lavorano, dita che tamburellano sul tavolo, «e i gomiti sul davanzale di uno che guarda fuori fumandosi una sigaretta». Il turno è finito? Allora perché questo odore di muffa? I versi di Franzin dicono in poesia una condizione oscurata, la condizione operaia, ora anche condizione precaria. «Un mese qua, due là, quando va bene». E qualcosa di molto grave: C’è «quella che non ritorna più a casa dal lavoro. Rimane una mela sopra il banco, / – fra il metro e il vasetto con le biro – / rossa». Scrivere: quel fare che, a confronto d’un colpo di mazza, sembra una folata di vento e invece traccia solchi profondissimi. Franzin lo sa e richiama le cose con il loro nome, anche là dove svela il rischio, il fallimento. Così rotola il mondo ai piedi di chi scrive, a terra, ma è come se finisse in alto, in altissimo.

Sarà per questo gettarsi in alto, sarà per questo volare via che tra le pagine di Sesti/Gesti viene in soccorso un titolo, quasi un consiglio: Arte e Àe. Arte e Ali. Come spostandosi aleggiando in un cielo terrestre, cioè dentro al «grigio dei capannoni», echeggia il nostro tempo coi suoi laureati in fabbrica. Mentre fuori, al corso di manualità creativa, la maestra Carmen Dorigo «insegna / a donne e ragazze a modellare una colomba / bianca con un tovagliolo di carta».