E’ stato abbastanza confortante leggere, nel «Burlington» di dicembre, la recensione di Christiansen alla mostra della National Gallery di Londra su Mantegna e Bellini. Lo studioso americano dichiarava quel che molti di noi hanno pensato aggirandosi per le sale della Sainsbury Wing: come si può affrontare un tema così alto producendo un catalogo senza schede? e sorvolando su questioni che hanno almeno un secolo e mezzo di seria vicenda critica? Con queste recenti esperienze negli occhi, è quindi rigenerante rifugiarsi a Palazzo Strozzi per vedere Verrocchio Il maestro di Leonardo (fino al 14 luglio, a cura di Francesco Caglioti e Andrea De Marchi, catalogo Marsilio, euro 53,00; dal 29 settembre alla National Gallery di Washington). Qui è stato messo a frutto il lavoro di generazioni di storici dell’arte, rimontato da due studiosi di comprovata esperienza sulla materia. Il risultato è una mostra di impareggiabile chiarezza, davvero luminosa.
Esordi sotto l’astro di Desiderio
A Verrocchio, incredibile ma vero, non era mai stata dedicata una mostra, in un paese che non trascorre semestre senza un appuntamento su Antonello o su Caravaggio. Scardinando il paragone fra scultura e pittura, la mostra garantisce un unico piano di discorso a tutte le arti: dal disegno alla terracotta, senza istituire sensi di minorità rispetto al pennello, al marmo o al bronzo. L’esordio di Verrocchio è posto sotto l’astro delle Madonne di Desiderio da Settignano; e se uno cerca i capolavori di questo ritrattista dell’infanzia, in mostra ne trova diversi. Ma lo scarto si misura subito: le donne di Desiderio sono ipnotizzate, quelle di Verrocchio indagate con l’armamentario sottile di chi cerca un’indagine della psiche. All’altezza della Dama dal mazzolino (1475 circa), la rivoluzione figurativa di Verrocchio ha già quel tono dolce e gentile che avrebbe sedotto giovani artisti residenti a Firenze e cultori della materia almeno fino all’epoca vittoriana e al manuale di liceo.
Di fronte a vertici come questo, le esercitazioni si saranno sprecate e uno Studio di mani di Leonardo da Vinci, esposto non lontano, dichiara qual è il rapporto che la mostra prova a inseguire. Ma una serie di personaggi-chiave – Ghirlandaio e Perugino, Francesco di Simone Ferrucci e Bartolomeo della Gatta, Desiderio da Settignano e Lorenzo di Credi – non tardano a entrare in scena, come se non potesse esserci un plot credibile, senza di loro. Per la Madonna Ruskin (1470 circa), attribuita a Domenico del Ghirlandaio da Alessandro Angelini, non si potevano scegliere compagni migliori, come quelli ottenuti per la mostra. Con le Madonne venute dal Louvre e da Washington, la progressione di questo maestro si misura palpabilmente: verso un’autonomia che contempla paesaggi, nicchie abitate da libri, loggiati e dolcezze imparate studiando Memling, dopo il tirocinio presso Verrocchio. Di fronte, si dipana la linea, umbra solo in apparenza, di chi vedeva in Verrocchio il capofila di una «maniera dura e crudetta», per riprendere una definizione di Vasari che generò più incomprensione che altro.
Nelle Storie di San Bernardino (1473), ciclo di sette tavole dove le teorie prospettiche sono condotte a tre mani, alle eleganze di Perugino e Pinturicchio si vuole ora aggiungere la mano di Sante Apollonio. Ma questa polifonia si spiega tornando al Tobiolo e l’arcangelo Raffaele della National Gallery, che Aldo Galli assegna a Verrocchio e bottega, riprendendo una rivalutazione di Luciano Bellosi, nume tutelare di tanti spunti di questa mostra.
Un’opera del genere poteva servire a tanti frequentatori di quella «bottega su cui Verrocchio esercitava un controllo attento, coinvolgendo secondo i meriti e le possibilità di ciascuno i giovani che si avvicendavano». Lo dimostra il disegno a fianco, un cartone frammentario, con una Testa di angelo, che si poteva riutilizzare per trasferire in pittura un’invenzione del maestro. In questo contesto serrato di confronti, avrebbe dovuto trovare il suo posto il Battesimo di Cristo, rimasto però agli Uffizi: davvero un’occasione mancata, per gli studi e per il pubblico. Nelle severe regole dell’atelier di Verrocchio, deve essere stato proibito invece avvicinarsi a un foglio come la Giovane donna del Louvre (1470-’75 circa), con intenzioni diverse dalla semplice contemplazione. Il volume degli occhi, dei riccioli, trattati come materia da scolpire a lumeggiature di biacca o di pennello, dovettero indurre molti, in quegli anni, a credere che il disegno era lo strumento principe dell’insegnamento artistico. Oppure della continua elaborazione di idee, come accade a Leonardo, che ristudia movimenti di teste, o profili su profili. Le dolci sperimentazioni procedevano anche, per chi avanzava lavorando la terra, inventando figure con o senza panni da studiare. Un Giovane addormentato (1465-’75) dei Musei di Berlino poteva anche servire come modello, in uso in bottega, da copiare per inoltrarsi nello studio dell’anatomia del corpo maschile.
Che Verrocchio fosse anche destinato a ricoprire un ruolo pubblico, prima affidato a Donatello nelle gerarchie medicee, doveva esser chiaro sin dalle prime prove in scultura. Il Candelabro in bronzo, per il Palazzo della Signoria, è del 1468-’69, l’incatevole Putto con il delfino del 1470-’75, ma sarà il David (1468-’70) a divenire, meno di dieci anni dopo, il nuovo emblema della Repubblica fiorentina. Caglioti chiarisce in catalogo che il giovane Verrocchio dovette guardare a Donatello, come a Desiderio, e non sentire fra i due maestri alcuna incompatibilità. Fra le opere inamovibili, ma a cui bisogna pensare stando in mostra, non ci sono solo il Monumento equestre di Bartolomeo Colleoni – fondamentale per le future scommesse di Leonardo – o la tomba di San Lorenzo per Piero e Giovanni de’ Medici, ma anche la palla per la Cupola brunelleschiana. O i resti della fontana marmorea per Mattia Corvino, che al pari dei profili di imperatori, dovette giungere a Budapest, in un clima di regali inviati da Lorenzo il Magnifico.
Incredulità di San Tommaso
L’Incredulità di San Tommaso è l’opera che davvero restituisce il senso di una scalata professionale: pagato a partire dal 1467, il gruppo è inaugurato, nel Tabernacolo esterno della Mercanzia a Orsanmichele, più di dieci anni dopo, nel 1483. Il focus sui Crocifissi, anch’esso parte della sezione speciale ospitata al Bargello, permette di comprendere l’irradiazione di un modello fra anni settanta e ottanta, che produce ora una linea più naturalistica (Giuliano da Maiano) ora monumentale (Giuliano da Sangallo).
In questo lavoro non sono solo tangibili gli avanzamenti prodotti negli ultimi decenni da un contesto di studi; sono anche messe in chiaro le r
isorse attuali del mestiere del conoscitore – sempre De Marchi e Caglioti, insieme ad Alessandro Nova, hanno dedicato nel 2013 ai Conoscitori tedeschi un importante convegno al Kunsthistorisches Institut di Firenze (il volume, per Officina Libraria, è stato pubblicato nel 2018). L’attribuzione a Leonardo della Madonna con Bambino del Victoria & Albert Museum non è di fatto una novità: lo aveva già pensato uno studioso poco noto, Claude Phillips, nel 1899. Cinquant’anni dopo, l’autorità di John Pope-Hennessy, direttore del museo londinese e convinto sostenitore dell’autografia di Antonio Rossellino per questa Madonna, aveva però oscurato la proposta, di fatto accolta dai maggiori studiosi di scultura rinascimentale della prima metà del Novecento (da Wilhelm Valentiner a Ulrich Middeldorf). Per Caglioti, che conosce meglio di chiunque la scultura del secondo Quattrocento fiorentino, non esiste nulla di più simile ai sorrisi leonardeschi; e le pieghe di quest’opera rimandano in modo palmare ai disegni «su lino» fatti da Leonardo e riuniti, con gran piacere di chi guarda, nell’ultima sala di Palazzo Strozzi.
Basterebbe quest’ultima sala per apprezzare il livello scientifico della mostra, che tuttavia non va appiattita su questa proposta attributiva. Più che il rimbalzare della notizia, fra recensioni dei giornali anglosassoni e servizi televisivi, sarà il tempo a decretare quale delle due attribuzioni si andrà affermando, ma speriamo non dipenda dai soli specialisti di Leonardo. L’ultima volta che è successo qualcosa di simile – il Salvator Mundi, che Luke Syson presentava come opera di Leonardo alla mostra della National Gallery del 2011 – il contesto era ben diverso, e si è visto com’è andata a finire. Per fortuna, il V&A non ha bisogno di una nuova Gioconda, per attrarre visitatori o investimenti.