Caduti i muri e le ideologie, la storia ha fornito al nostro tempo varie occasioni per tornare a riflettere sulla guerra. Per molti europei essa ha smesso di essere una realtà remota nel 1991, con i video del bombardamento di Baghdad e gli scontri ai laghi di Plitvice. Eventi successivi l’hanno resa più insidiosamente familiare. Forse per questo il tema torna attuale anche per noi, «sicuri nelle nostre tiepide case». Di guerra hanno ripreso a trattare pure gli studi sul mondo antico: un settore per lungo tempo inquinato da retoriche guerrafondaie, ma ora aperto a sguardi seri e nuovi. Lo provano i libri di Giovanni Brizzi (Il guerriero, l’oplita, il legionario, 2003) e Marco Bettalli (Mercenari. Il mestiere delle armi nel mondo greco antico, ’13). Sintesi recenti offrono la Cambridge History of Greek and Roman Warfare (’07), mentre i Companion su Insurgency and Terrorism in the Ancient Mediterranean (’16), e Military Defeat in Ancient Mediterranean Society (’17) guardano più esplicitamente alla cronaca recente.
Un saggio di Umberto Curi
In tale quadro si pubblica l’edizione italiana di un volume collettivo su La guerra nella Grecia antica, curato da Jean-Pierre Vernant nel lontano 1968, ripreso nell’85 e nel ’99 (Raffaello Cortina Editore «Saggi», pp. lxiv +350, € 29,00). Il testo, tradotto da Ilaria Calini, è preceduto da un saggio di Umberto Curi, che delinea il lungo percorso intellettuale di Vernant e sviluppa considerazioni sul tema della guerra, cui Curi ha di recente dedicato numerosi contributi. Accostare il libro significa ripercorrere le vie dell’antropologia storica francese, donde i saggi, anche se non tutti nati in quel contesto, trassero il loro senso più profondo. Il punto di vista adottato non lasciò entrare nello studio del tema «nessuna rimozione, nessuna pregiudiziale svalutazione, nessun atteggiamento esorcistico, in nome di un indistinto appello di stampo pacifista». Questa concretezza non era scontata, dato il clima degli anni sessanta: osserva però Curi che un approccio alla guerra come elemento storicamente «necessario» (e non solo preparatorio della rivoluzione anticapitalistica) era ben coerente alla prospettiva di Marx. I contributi del libro furono sufficientemente liberi da schemi ideologici, così da restare attuali, a cinquant’anni dalla pubblicazione. Questo, anche se non riflettono lo stato presente delle conoscenze archeologiche, anche se l’interpretazione dipende talora da posizioni oggi non seguite. Viene anzi da chiedersi se la loro riproposta sia segno di validità e persistenza oppure di crisi, ossia della mancanza di saggi recenti di pari efficacia e sintesi. In qualche caso però sarebbe stato utile informare il lettore sugli sviluppi della ricerca successiva. Lo studio delle fortificazioni, per esempio, ha ricevuto un impulso notevolissimo tra archeologi, storici e epigrafisti: di tutto ciò il saggio di Yvon Garlan presente nel volume è proprio la premessa metodica.
Il libro nacque da seminari «collettivi», vòlti a indagare gli «atteggiamenti degli uomini» di fronte alla guerra e alle sue conseguenze. Fa da guida il concetto di «funzione guerriera», mutuato dagli studi di Georges Dumézil (Aspects de la fonction guerrière chez les Indo-Européens,1956), che aveva individuato nelle società tre «funzioni» pervasive, legate all’ambito religioso, guerriero, economico. E poi c’è Louis Gernet, il maestro di Vernant che aveva insegnato a guardare ai Greci «senza miracolo», ossia senza le idealizzazioni del filtro classicista. Al tema della guerra Vernant (1914-2007) approdava anche per l’esperienza personale nella resistenza all’occupazione nazista. Perciò il suo sguardo era libero sia dalle deprecazioni pacifiste sia dai fervori bellicisti. Per questo egli poteva analizzare l’etica dell’oplita spartano senza le ambigue implicazioni che contagiano la guerra dei greci, quando è letta in funzione delle «razze superiori».
Nei vari lavori (Detienne sulla falange, Vidal-Naquet sull’oplita ateniese), lo strutturalismo e l’antropologia storica sorreggono una lettura sistematica in cui tutto «torna» rigorosamente, e ciò fa effetto in un’epoca in cui tutto invece pare sempre «liquido». I due saggi di studiosi anglosassoni (Geoffrey S. Kirk su Omero, Moses Finley su Sparta) sono già diversi, più fattuali e più scettici allo stesso tempo. Altri contributi hanno un taglio più storico (Jean Taillardat sulla trireme, Garlan sulle fortificazioni, Pierre Lévêque sull’età ellenistica). Nella varietà, il quadro sui fatti e gli aspetti della «sociologia della guerra» nella Grecia antica è efficace. Certo, «guerra in Grecia» è un tema ampio. Il libro studia soprattutto l’età arcaica, dalla guerra omerica (anzi, dalle guerre del mito) a quella degli opliti, ripensate secondo le categorie antiche, esaminando i comportamenti riconosciuti meritevoli di biasimo o di elogio. Sparta e Atene rappresentano due poli fondamentali, meno opposti di quanto si crederebbe. Entrambe diffidarono a lungo del carisma che circonda il militare vittorioso, in quanto esso scardina l’uguaglianza del gruppo. Per Atene, l’emarginazione della funzione guerriera passò per il «discorso» democratico, che celebrava il «non specialismo» di ufficiali e soldati (vero in parte, certo non per la flotta). L’evoluzione storica di armi e soldati è da leggere in rapporto alla trasformazione sociale. Perciò la guerra del Peloponneso emerge come una svolta profonda nella società greca: mise fine ai giorni eroici dei guerrieri e della «bella morte», allentò alquanto il nesso tra la guerra e la comunità dei cittadini, aprì all’epoca dei professionisti della battaglia. Colse bene il punto Tucidide, che parlò di una «maestra di violenza» (3.82.2).
Non proprio impeccabile
Nell’introduzione si definisce la traduzione «davvero impeccabile per l’accuratezza e il rigore filologico». Il lettore incontra un quadro più vario. Nel saggio sulle triremi si ammirano impressionanti tecnicismi di marineria (i «traniti»!), si rinuncia però a tradurre «à clin», che come ciascun sa è il «fasciame a labbro». Più fastidiose certe sviste, ingannevoli per il non specialista. In quale lingua è la parola keleuste (p. 228)? Perché la grafia papyri? Che cosa sono le feste Apaturies (p. 7)? In corsivo, sembrano parole greche, ma. In quale lingua sono citati i «teti epibates» (p. 196)? Anche epibates, per di più in corsivo, pare una parola greca, ma non lo è: si tratta della resa francese di parole greche, secondo un uso diverso dall’italiano. Andava italianizzato in «epìbati» (come altrove, alle pp. 228-29, sfruttando il latino epibata), o traslitterato, scrivendo «epibàtai». Il testo francese può essere ambiguo, e certo ha generato lo stesso errore nella precedente traduzione italiana del saggio, e anche nelle versioni in tedesco e in spagnolo. Nullo il gaudio di questo mal comune. Che per tradurre Vernant serva sapere anche un po’ di greco antico? Mah. Il problema si ripropone per certi nomi propri. Sotto «Fravito» si cela Fravitta, celebre capo visigoto, mentre un ignoto «Eneo Tattico» è l’infelice esito (per tre volte!) di un non difficilissimo «Énée» (già, Enea…). D’altra parte, i pochissimi passi in greco generano refusi sfiguranti (p. 205), e un editing bizzarro rinvia per il testo degli editti del re indiano Asoka a un manuale di storia per i bienni (!) invece che all’edizione Adelphi, curata da Pugliese Carratelli… Rigore filologico, appunto.