Parigi, 1789. Nel suo Trattato di chimica elementare, Antoine Laurent de Lavoisier enuncia la legge di conservazione della materia ‘Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma’. Torino, 1786. Nella liquoreria e rivendita di vini Marendazzo di piazza Castello 18, allora piazza delle Fiere, il giovane garzone Antonio Benedetto Carpano mette a punto la formula del Vermouth di Torino. Anticipando e applicando involontariamente la legge di Lavoisier, lo vedremo a breve. Prima, però, occorre citare una terza data, il 22 marzo 2017, che segna il riconoscimento da parte dell’Unione Europea della IGP, Indicazione Geografica Protetta, ‘Vermouth di Torino’. E un anno, il 2010, in cui il vermut comincia il suo progressivo ritorno alla celebrità etilica del passato. Nulla si crea. In questo caso a cominciare dal nome, Wermut, che indica in tedesco l’assenzio, distillato dell’Artemisia absinthium. Ma neppure i tedeschi avevano inventato nulla. Perché già i romani erano ottimi bevitori di vinum absinthiatum, come testimonia il gastronomo e gaudente Marco Gavio Apicio, nel suo ricettario De re coquinaria, compilato intorno al Cinquanta dopo Cristo. Parallelamente, bevande vinose con l’assenzio venivano usate a scopi terapeutici. Nulla si distrugge. La caduta dell’Impero Romano, quattro secoli dopo, seppellisce anche il vinum, di cui si perdono le tracce. Le ritrova l’agronomo toscano Giovanni Vittorio Soderini. In un passaggio del Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se ne può ricavare, 1570, Soderini documenta «Usano i Germani, e in Ungheria ancora si fa, vino d’assenzio, di rosmarino e di salvia…». È il wermut wein, imbarbarito nel gusto rispetto al vinum, cui i romani, grazie ai loro commerci, conferivano i profumi e gli aromi esotici delle spezie. Il wein, dalle proprietà digestive e corroboranti, troverà impiego in larga parte dell’Europa.
VINO MEDICINALE
Enologia toscana, 1773, opera redatta dal medico Cosimo Villifranchi, annota «Odiernamente è molto stimato in Toscana ed altrove un vino bianco stomachico e medicinale nominato con il vocabolo tedesco Wermouth». In Piemonte, nello stesso secolo, tutti gli inventari delle cantine dei palazzi aristocratici elencano bottiglie di vermut (la doppia vu è scomparsa), destinate a malati, balie, persone debilitate. Arriviamo così al 1786, a Torino e alla liquoreria Marandazzo di piazza Castello, dove lavora il giovane garzone Carpano. Fulvio Piccinino, un’autorità in materia, autore del saggio Il vermouth di Torino, afferma «Carpano non inventò nulla. Trasformò invece un prodotto medicinale in un prodotto voluttuario, piacevole al palato; vi aggiunse zucchero, prima presente nel vermut solo in quanto residuo della fermentazione; al posto dei vini robusti preferì il leggero Moscato. Lo scrittore Paolo Monelli, ebbe a dire di Carpano che era riuscito a coprire il gusto di zolle di cantina dei vini di allora». Un’idea geniale e remunerativa, testimoniata dal successo inarrestabile del vermouth, questa la nuova dizione, e della liquoreria, di cui Antonio Benedetto diviene proprietario, ‘costretta’ a funzionare ventiquattr’ore su ventiquattro. Chiuderà i battenti nel 1916, tra la costernazione generale, dopo essere stata il punto di riferimento per i torinesi che amavano celebrare il rito dell’aperitivo. Una targa apposta su un palazzo di via Viotti angolo piazza Castello ricorda che la bottega sorgeva proprio lì, cancellata insieme ad altri edifici dalle megalomanie architettoniche del Ventennio fascista. La concorrenza arriva nel 1816 dalla Cinzano, e da Cora nel 1835. Ma il boom vero e proprio dei vermouth si avrà a partire dal 1838, con l’incremento delle vie di comunicazione. Nasceranno allora aziende in parte destinate a diventare di caratura internazionale, altre rimaste fedeli a un’impronta e a una dimensione artigianali. È del 1840 la decisione di casa Savoia di redigere il primo Registro Industriale delle Fabbriche di Vermouth. La successiva denominazione, Vermouth di Torino, verrà aggiunta per chiarire e proteggere l’origine e l’originalità della ricetta. Grande risonanza la offre l’Esposizione Generale di Torino del 1894. Il testo del catalogo recita «Numerose ed elegantissime sono le piramidi del famoso vino Vermouth di Torino. I fratelli Cora, Fratelli Cinzano, Bergia, Audifreddi, Aliani, Martini & Rossi, Freund, Ballor, Carpano sono le case più conosciute per tale produzione e ne fanno una considerevole esportazione annua.
QUARANTAMILA ETTOLITRI
I soli Martini & Rossi ne esportano in media quarantamila ettolitri l’anno». Cifre importanti, che cresceranno e porteranno le aziende a spostarsi dalla Borgata Dora Grossa, in corrispondenza dell’attuale via Garibaldi, dove quasi tutte erano nate, alle zone in prossimità delle linee ferroviarie. Gli eredi Carpano, nel 1917, abbandonano la sede di via Maria Vittoria 4, il magnifico palazzo seicentesco Asinari di San Marzano, nel cuore di Torino, per lo stabilimento di via Nizza 224, fuori dalla cinta daziaria, oggi sede di Eataly. Analoga la scelta, ad esempio, di Martini e Gancia. Le enormi fortune economiche del vermouth conducono tuttavia verso un accentuato declino in termini qualitativi. Dalla seconda metà del Novecento, spuntano centinaia di marchi, che dedicano scarsissima o nessuna cura alla scelta delle materie prime, all’accuratezza delle lavorazioni, al rispetto della tradizione. Tra i marchi storici, pochi, pochissimi, decidono di continuare. Il tempo del vermouth a Corte e il rito dell’Ora del vermouth finiscono negli archivi della memoria torinese. Ne raccontiamo poco oltre, in un piccolo viaggio che parte dagli stucchi dorati dei caffè d’epoca per arrivare al legno dei tavoli della Grande Asportazione Vini Erminio. Due mondi antichi ed opposti, un bicchiere di vermouth che da un secolo e mezzo li avvicina. O, ancora meglio, che li unisce. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Dimostrato da Antoine Laurent de Lavoisier, e a sua insaputa da Antonio Benedetto Carpano.

L’età aurea del Vermouth di Torino durò esattamente un secolo e mezzo: dal 1786 al 1916. Dopo la fine della prima guerra mondiale, anche in Italia iniziò a diffondersi la moda dei cocktail. Nei quali, comunque, il vermouth rappresenterà uno degli ingredienti fondamentali. L’età aurea vide la miscela aromatica di Antonio Benedetto entrare alla Corte sabauda con tutti gli onori, prima accolta da Vittorio Amedeo III di Savoia, poi da Re Tentenna, Carlo Alberto, nonostante, si mormora, il sovrano fosse astemio. Questione di marketing politico: il vermouth era dimostrazione dell’eccellenza piemontese. Ma, fuori dalle reali stanze, Carpano alimentò le proprie fortune commerciali grazie alla posizione della liquoreria, nel centro del centro di Torino, a pochi metri dai caffè frequentati da una clientela di politici, borghesi illuminati, nobili di varia caratura. Primo fra tutti, anche in termini cronologici, Florio, aperto nel 1780 in piazza Castello, con le sue salette al riparo da occhi indiscreti. Sempre in piazza Castello, ma solo nel 1907, inaugura Mulassano, che inventerà il tramezzino e apporrà il proprio marchio su un vermouth. Poco più in là, in piazza San Carlo, nel 1822, nasce l’omonimo locale, e nel 1836 la Pasticceria Stratta, regno di dolcezze e liquori. Settant’anni dopo, ancora in piazza San Carlo, è la volta del Torino. Tra il 1880 e il 1915, la città prende l’abitudine di consumare il rito dell’Ora del vermouth, che si svolge dalle sei alle sette di sera. Scrive Fulvio Piccinino «… Gli artisti e gli ufficiali di cavalleria, agli antipodi nella vita vissuta, si trovavano gomito a gomito; le signore si raccontavano gli ultimi pettegolezzi lanciando occhiate sfuggenti e ammiccanti ai gentiluomini presenti in sala. Per le signorine della Torino benestante, essere portate dalla mamma all’Ora del vermouth rappresentava una sorta di debutto in società…». Tutti sorseggiavano un ‘vermuttino’, così chiamato per via dello spruzzo di selz che lo annacquava appena. La fine della Grande Guerra, lo si è detto, cancellerà questa tradizione. Ma non del tutto. La Descrizione di Torino, 1840, dello scrittore e giornalista Davide Bertolotti, elenca nella capitale sabauda 159 osterie e 21 cantine con mescita di vino, a fronte di meno di duecentomila abitanti. È lì, nelle piole, così il dialetto piemontese traduce il termine osteria, che il vermouth, una volta scomparso dai pubblici salotti, diventerà consumazione abituale in alternativa (o in aggiunta) alla bevanda di Bacco. Le piole sono un patrimonio di Torino in via di estinzione. Qualcuna, però, continua a vivere e a difendere il proprio passato. Dal 1956, al fondo di corso San Maurizio e a due passi da piazza Vittorio, campeggia l’insegna Grande Asportazione Vini Erminio. Erminio, di cognome Cocco, stazza e aspetto imponenti, governava la piola affiancato dall’energica mamma, che al piano superiore cucinava per i clienti, operai e gente del quartiere. I Cocco si erano comprati il locale, attivo già mezzo secolo prima, vendendo la cascina di famiglia nel Monferrato. Man mano che la popolarità dell’Asportazione andava crescendo, diminuivano gli spazi utili a sedersi e ad accedere alle sale. Nel corso di sessant’anni, Erminio aveva accumulato mobili, tavoli, sedie, botti, bottiglie, oggetti, calendari, poster, ritagli di giornali. In pratica, era impossibile spingersi oltre il bellissimo bancone con la spina per i vini. Erminio ha salutato il mondo lo scorso anno. Fine della storia? Neanche per sogno. Il nipote Emanuele, ventotto anni, saldatore, tecnico di biciclette, pittore, un lungo soggiorno a Los Angeles, ha deciso di seguire le orme dello zio. Ci ha messo un anno a svuotare la piola; a restaurare mobili, porte, bancone; a scegliere fotografie, quadri, oggetti d’epoca da appendere alle pareti. E alla fine, eccola ancora qui la Grande Asportazione, sempre uguale a sé stessa, solo ripulita. Durante i lavori, Emanuele ha riscoperto, nascosto dal magnifico caos e appeso a un muro, un grande specchio serigrafato con la pubblicità di un vermouth. E lui il vermouth ce l’ha, e anche le carte per una partita a scopa, e il vino sfuso. Altroché rumerie, vodkerie e bar fighetti in stile frigorifero.

REVIVAL

Questione di revival? Il vermouth che torna in auge come il vinile, gli oggetti di modernariato, l’abbigliamento anni ’70? La parola, ancora Fulvio Piccinino «Nel 2010, dopo il periodo buio dei cocktail blu e dei cocktail arancioni, comincia il ritorno ala miscelazione classica, Manhattan, Rob Roy, Negroni… Il miglior accompagnamento, il più versatile, al distillato base, è proprio il vermouth. Se prendiamo un libro americano di cocktail dei primi ’900, vedremo che su mille ricette, settecento sono a base di vermouth. E poi, non dimentichiamolo, il vermouth è già di per sé un cocktail. Contiene alcol, vino, zucchero e spezie”. La rinascente popolarità della miscela di Antonio Benedetto è testimoniata a Torino dal glorioso negozio ‘Damarco vini e liquori’. Affaccia sulla piazza del mercato di Porta Palazzo dal 1959, quando Giovanni Battista Damarco, la moglie Brugnetta e la figlia Marilena rilevarono la drogheria ‘Maffè dal 1890’. Facendosi strada tra i clienti che affollano il labirinto alcolico, si arriva al reparto, anzi al tempio, del vermouth. Un lunghissimo scaffale mette in fila decine di etichette. Accanto a Carpano, Martini, Gancia, Cinzano, si scoprono nomi sconosciuti ai più. L’etichetta esotica della Bordiga, made in Cuneo, 1888, richiama subito lo sguardo. La produzione, interrotta negli anni ’60 del secolo scorso, è ripresa di recente. Al fiorentino Giulio Cocchi, che scelse Asti per produrre il suo vermouth, si deve l’elaborazione del Barolo Chinato e l’idea dei Flagship Store (allora non si chiamavano certo così), punti vendita quasi in esclusiva. Li chiamò i Barolino Cocchi, erano presenti in dodici città. La Canellese iniziò come fabbrica di botti nel 1890, e solo nel primo dopoguerra decise di darsi al vermouth; Riserva Carlo Alberto, azienda del Canavese, produce un omonimo nettare a base di Moscato ed Erbaluce; Scarpa, seconda metà dell’800, è tornata in campo nel 2014 dopo una pausa di quarant’anni; Contratto, famosa per gli spumanti, lanciò il suo elegante vermouth nel 1925. Fuori dagli scaffali di Damarco, due parole in più merita il marchio Peliti’s. Nel 1869, Richard Bourke, viceré delle Indie, scelse Federico Peliti da Carignano come pasticcere e se lo portò a Calcutta. Peliti incrementò le sue fortune aprendo un ristorante e un albergo a Shimla, e, tornato al paesello nel 1884, una distilleria. Qui elaborò su richiesta della Casa Reale britannica un vermouth blasonato, che a breve verrà riproposto nella formula originale. Con il Vermouth di Torino, questo il nome sull’etichetta, ha iniziato a cimentarsi Ca ‘d Tantin, in quel di Calosso, Astigiano. Il vino di base è l’Arneis, la produzione 2017 è stata di appena 689 bottiglie. Lo abbiamo centellinato con un cubetto di ghiaccio e una scorza di limone. Un capolavoro.

Il vermouth disciplinato

Il Disciplinare del Vermouth di Torino prevede una serie di disposizioni che ne regolano la produzione. Anzitutto soltanto l’impiego di vini italiani, bianchi e rossi, in una percentuale del 75 per cento. Per il Torino Superiore occorre una quota del 50 per cento di vini piemontesi. La gradazione alcolica viene fissata in 16 gradi, 17 per il Superiore. La totalità dell’assenzio deve provenire dall’artemisia, che a Pancalieri, comune della città metropolitana torinese, ha la più grande coltivazione mondiale della pianta. La quantità di zucchero deve essere compresa fra i 30 e i 130 grammi, a seconda delle tipologie di vermouth. Il miele è stato introdotto come dolcificante, il caramello E 150 come colorante. Il Vermouth di Torino può essere prodotto esclusivamente sul territorio regionale. Il Grande Libro del Vermouth di Torino, edito dalla OICCE, Organizzazione Interprofessionale per la Comunicazione delle Conoscenze in Enologia, esplora il tema in modo estremamente approfondito e con un prezioso corredo iconografico. I due autori, Giusi Mainardi e Pierstefano Berta, dedicano, ad esempio, ben ottanta pagine a spezie, erbe aromatiche, artemisia, estratti naturali. Il prezzo, 50 euro, vale la spesa (lds)

La bibbia di Fulvio

La Graphot di Torino, 011 2386281, ha pubblicato nel marzo di quest’anno l’edizione aggiornata di Il Vermouth di Torino, 13 euro, a firma di Fulvio Piccinino. L’autore, uno dei massimi esperti in materia, racconta in centoquaranta pagine i diciotto secoli di storia del vermouth. Lo stile narrativo, di facile approccio per il lettore profano, nulla toglie alla serietà e al rigore scientifico. Avvenimenti grandi e piccoli, curiosità, cronache dei costumi e della cultura dell’epoca; descrizioni dei luoghi e dei riti legati al ‘vermuttino’, fanno entrare in una Torino preindustriale, ancora fisicamente legata a una dimensione di provincia, che allargherà i suoi orizzonti con il Risorgimento. La seconda parte del volume è dedicata ai produttori storici e ai cocktail a base di vermouth. Piccinino è anche l’ideatore di Esperienza Vermouth, un evento ospitato nello Spazio Incet di via Francesco Cigna 96, 011 19214791, due giovedì al mese. I partecipanti, attraverso racconti e degustazioni vengono condotti a scoprire il vermouth, che imparano anche a preparare servendosi di apposite postazioni dotate di attrezzature come imbuti e contagocce, e di vino base, erbe, spezie, tinture professionali (lds)