La notizia, in fondo, è che sono ancora vivo dopo la visita alla mostra Vermeer et les maîtres de la peinture de genre, aperta al Louvre fino al 22 maggio e poi in tournée in Irlanda e negli Stati Uniti per un periplo destinato ad arrestarsi il prossimo gennaio.
Lo dico non tanto per la prova di resistenza che impone uno degli avvenimenti mondani nella ville lumière primaverile, calamita di folle oceaniche e di prenotazioni anticipatissime: è semmai che, a frequentare esposizioni olandesi su suolo parigino, non si può non avere in mente la tremenda dipartita del pittore Bergotte, raccontata da Marcel Proust in un paragrafo aggiunto a La Prisonnière, quando il volume era quasi sotto ai torchi Gallimard.
Il pover’uomo trova la morte di fronte alla Veduta di Delft di Vermeer, stroncato da una fatale sequenza di colpi apoplettici durante una passeggiata ‘di finzione’ nella rassegna di pittura dei Paesi Bassi effettivamente tenutasi al Jeu de Paume fra l’aprile e il maggio del 1921; e sebbene l’autore non chiarisca le ragioni del decesso – indigestione di patate mal cotte o sindrome di Stendhal parossistica? – è sempre bene tornare con cautela sulle orme di biografie celebri, siano esse reali o immaginarie…
Del resto, un ‘evento Vermeer’ ospitato in riva alla Senna si carica di un duplice éclat. Da un lato infatti la Francia è patria d’elezione per il pittore di Delft, il luogo in cui si è inaugurata – sulla seconda metà dell’Ottocento – la riscoperta dell’artista e la consegna del suo legato al linguaggio della modernità; dall’altro la forza contrattuale di un’istituzione come il Louvre garantisce una galleria assai ricca di testimonianze del maestro, fra i nomi incedibili nell’odierna diplomazia delle mostre internazionali.
Tredici dipinti autografi
In questo caso i dipinti autografi sono ben tredici e l’unico assente, tra i grandi prestatori, è il Mauritshuis dell’Aia, riaperto di recente dopo un restauro biennale e un imponente ampliamento. Si tratta di un risultato considerevole, pur mettendo nel conto il prestigio degli altri partner dell’impresa (le gallerie nazionali di Dublino e di Washington); tanto più se lo si confronta con altre occasioni di poco precedenti, come l’allestimento alle Scuderie del Quirinale nel 2012-’13 (che ne prevedeva otto) o la munifica selezione per Vermeer and the Delft School curata da Walter Liedtke per il Metropolitan di New York nel 2001 (in grado di raggrupparne una dozzina).
Quello che potrebbe apparire solo un computo ragionieristico vuole in realtà essere una giusta ponderazione dello sforzo progettuale alla base dell’appuntamento d’oltralpe; d’altronde, già un contributo di Jean-Louis Vaudoyer a commento della collettiva del Jeu de Paume del ’21 principiava: «il più bel piacere che ci hanno regalato gli organizzatori… è di aver portato a Parigi tre quadri di Jean Vermeer da Delft».
Perché di fronte al «misterioso Vermeer» – questo il titolo dell’articolo apparso sulle pagine de «L’Opinion» – la ‘serie’ è una chiave importante di lettura, di interpretazione; tanto più se ne si considera il corpus esiguo e la somma dispersione dei singoli lavori. Pertanto, così come Bergotte si affretta – secondo la Recherche – a rivedere quadri a lui ben noti alla ricerca di dettagli inediti nel confronto dell’uno con l’altro pezzo, è utile visitare il Louvre per regalarsi strumenti aggiuntivi nell’interpretazione del luminoso lessico dell’artista olandese.
Certo, rispetto all’esame formalista proposto da Vaudoyer (e accolto da Proust, innamorato della «pazienza cinese» con cui il pittore avrebbe dipinto un «piccolo lembo di muro giallo») il piano di Adriaan E. Waiboer sceglie una chiave in tutto diversa, riallineandosi a una démarche più attuale. L’analisi offerta nel ’21 – e recuperata nella sua interezza, pur se in una prospettiva revisionista, da un colto saggio di Daniel Arasse del 1993 – parlava di Vermeer come di «un pittore-tipo», il cui fascino andrebbe individuato “«nella maniera nella quale il colore è steso, trattato, manipolato»: così Vaudoyer invitava a riconoscere nelle pennellate «un’applicazione fervida, una consapevolezza pura, una minuzia laboriosa», efficace nel conservare ai pigmenti il loro splendore naturale. Proprio principiando da un simile disegno era stata perfino imbastita nel giugno del 1966 la mostra-anniversario dell’Aia, In the light of Vermeer, il cui catalogo era – non a caso – prefato da un altro francese, René Huyghe: iniziativa che si chiudeva con opere di Seurat, Bonnard e Cézanne.
Nel frattempo, fra gli anni settanta e i novanta, la parabola biografica dell’artista è andata chiarendosi grazie alle indagini di John Michael Montias: in un’ottica siffatta, nell’abbondanza di materiali archivistici e documentari resi noti da allora, il contesto produttivo in cui l’autore si trovò a lavorare ha assunto un peso crescente, invitando a reinserirne le scelte iconografiche e compositive in un milieu popoloso e vivace, in un ambiente culturalmente aggiornato.
Concludeva Arasse nell’introduzione al libro già ricordato, L’ambizione di Vermeer: l’olandese «esprime una posizione intellettuale in rapporto a delle sfide coeve, siano esse d’ordine artistico… o più generalmente storico».
Sono questi i presupposti critici dell’esposizione montata al Louvre, che eloquentemente denuncia nei pannelli esplicativi i propri intenti: sulle basi di simili premesse vi si arriva ad affermare come la presenza o l’assenza di un quadro di Vermeer nelle sezioni di cui è composto il percorso – arricchite tutte dalle opere dei suo contemporanei, da Gerard ter Borch a Gabriel Metsu, da Gerard Dou a Pieter de Hooch – risultino ugualmente illuminanti nel confronto con la pittura diffusa nei Paesi Bassi negli anni della sua attività professionale, tanto l’una produzione non può venire slegata dall’altra.
La «sfinge» di Theophile Thoré
È infatti opinione ormai corrente che i soggetti prescelti da Vermeer facciano parte di un condiviso universo di forme, espressione della sommossa iconoclasta di un paese come l’Olanda (repentinamente convertitosi al potestantesimo) e del conseguente riorganizzarsi del mercato dell’arte in chiave privata e ‘borghese’. Si susseguono dunque in mostra donne alla toletta, mangiatrici di ostriche, apportatori di lettere, musici, geografi, cuoche e ricamatrici: un universo coeso e quotidiano – innervato di un simbolismo moraleggiante o didascalico, per questo ancor più convenzionale – che sulla metà del Seicento amplierà all’inverosimile i limiti già estesi della categoria della scena di genere.
Raggruppando così i dipinti per temi piuttosto che per cronologia (e eventualmente scaglionando internamente a ciascun segmento una sequenza di opere), i curatori hanno deciso di sciogliere il rebus della «sfinge di Delft» – la definizione è di Theophile Thoré – in un gioco enigmistico, non meno pertinente al tema dell’ispirazione e della creazione pittorica: è nel tracciare il rincorrersi di motivi e figure fra le composizione vermeeriane e quelle dei colleghi che si evidenzia a Parigi la specificità delle sue scelte, delle sue omissioni o delle sue sottolineature, modulate in vista di un’eletta economia di mezzi e di una stilizzata castità formale.
In questo senso, anzi, nell’estrema reticenza degli episodi inclusi nell’oeuvre del pittore la meccanica delle riprese o dei rimandi fra botteghe diverse e rivali subisce una trasfigurazione: e di fronte alle sue creazioni il passatempo divertito delle differenze (o similitudini) da individuare apre a una pratica «investigativa» nient’affatto deterministica, maggiormente evocativa. È il caso esemplare della Lettera di Dublino, messa a confronto con l’analoga, narrativa invenzione di Ter Borch: i dettagli inspiegabili, rinvii a scomparse o eventi passati, si accumulano nella tela di Vermeer, dalla missiva accartocciata sul pavimento alla tenda pesante scostata come per l’arrivo di un avventore, dalla sedia sghemba nell’angolo alla distrazione della serva attirata da invisibili presenze. Così la ‘scena di genere’ si trasforma quasi nella ‘scena di un crimine’: e l’arcano della luce impassibile dell’artista – un inspiegabile incanto per i suoi primi, moderni esegeti – è traslato su una segreta dialettica con il codice iconografico, imperscrutabile perché modulata sulle sparizioni piuttosto che sui complementi.
Scriveva il solito Vaudoyer: «se Vermeer ci fa sognare il sangue, non usa mai il colore rosso… e questo perché, per così dire, si tratta di un negromante, di un sangue giallo, di un sangue blu, di un sangue ocra»