Da più parti della società civile e di quella politica si moltiplicano gli appelli perché le relazioni tra Italia ed Egitto, o meglio tra il nostro Paese e l’attuale regime egiziano, arrivino a configurare la possibilità di una verità piena sull’assassinio di Giulio Regeni. Sino ad oggi solo il richiamo dell’ambasciatore per consultazioni e l’invio di investigatori in loco hanno marcato la volontà del nostro governo di spingere Al Sisi a collaborare, ma ci sono molte altre iniziative che si possono e si devono prendere se esiste una volontà reale di andare ad un chiarimento. Alcune proposte sono già state formulate dalle colonne di questo giornale. Luigi Manconi lancia un appello decisivo affinché l’Egitto venga dichiarato «Paese non sicuro», con tutte le conseguenze del caso; mentre Giulio Marcon richiama giustamente la ministra Pinotti alla necessità di «sospendere la cooperazione militare tra i due Paesi». Sono misure più che necessarie, quasi delle precondizioni per una dialogo alla pari, ma sono tutte di tipo «negativo». Ed in questi casi l‘esperienza di terreno, cioè di quanti come le Ong di cooperazione allo sviluppo lavorano con i partner locali, insegna che a queste misure di sospensione deve necessariamente corrispondere un aumento dei fondi dedicati al sostegno della società civile locale.

Diciamo questo per una serie di motivi che ineriscono sia la politica estera dell’Italia sia la situazione interna europea, oramai intimamente correlate specie dopo l’evidenza delle relazioni tra povertà, sottosviluppo, mancanza di democrazia, cambiamenti climatici, guerre e fenomeni migratori. E allora è palese come la vicenda Regeni vada non estrapolata dal contesto geopolitico attuale, ma utilizzata, nella sua evidente drammaticità, come spinta al ripensamento per tutta la politica euro-mediterranea, come veniva adombrata dal processo di Barcellona oramai vent’anni or sono. Cioè della definizione di una zona di scambio economico sulla base di accordi di partenariato, oramai da decenni messa da parte a favore di una gestione follemente emergenziale di fenomeni ampiamente strutturali, di cui le migrazioni non sono che un effetto.

È dunque chiaro che, se si vuole fare una politica di lungo periodo, cioè stabilizzare nell’unico senso possibile l’area Sud del Mediterraneo, è necessaria una iniziativa forte di sostegno alle società civili di quei Paesi che più sono esposti oggi al rischio povertà e mancanza di Diritti, primo tra tutti, appunto, l’Egitto attuale, ma non solo. Lo diciamo perché non vorremmo che, tanto per fare un gesto eclatante quanto pericoloso, qualcuno ventilasse l’ipotesi di tagliare non, com’è necessario, la cooperazione militare ma quella civile, dato che l’Egitto è uno dei Paesi prioritari in questo senso. Sarebbe una mossa esiziale, che darebbe non solo più forza al regime ma che, soprattutto, indebolirebbe proprio quelle tante organizzazioni di società civile, non a caso represse, che oggi rappresentano il futuro democratico dell’Egitto. Non è forse perché studiava questi fenomeni di resistenza ed organizzazione attiva che Regeni è stato brutalmente torturato a morte?

Dunque non taglio della cooperazione, se qualcuno mai lo pensasse, ma il suo raddoppio, ovviamente nel quadro di un ripensamento rispetto ai partenariati ed all’attivo sostegno politico di quanti lavorano con le controparti egiziane. Questo vorrebbe dire uscire allo scoperto con una politica che dichiara apertamente quali sono i suoi obiettivi e si espone con attività concrete, chiamando al contempo anche gli altri Paesi dell’Ue a fare altrettanto. Un rinnovato impegno per la cooperazione di sostegno alla società civile egiziana oltretutto, sarebbe un segnale fortissimo non solo in loco, ma anche rispetto alla diaspora egiziana in Italia ed in Europa che si aspetta proprio queste decisioni e non solo le consultazioni dell’ambasciatore.