Un uomo e un bambino stanno seduti sul bordo dell’acqua. Li vediamo di spalle. Guardano lontano. In silenzio. ICi ricordano, per assonanze ambientali e esiti artistici che pure qui si sono consumati, Geppetto e Pinocchio. Padre e figlio, eredità e continuità, in procinto di ripartire. Per dove? È la prima immagine che ci coglie appena dentro il cortile del carcere di Volterra dove si consuma il nuovo capitolo della trentennale avventura della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo. Sarà la prima di una serie di inquadrature, campi lunghi e primi piani. Si chiama Beatitudo questo lungo piano sequenza che scaturisce, amplificandosi e dilatandosi su panoramiche in cinemascope, dal piedistallo dello scorso anno, dove si ergeva una intelaiatura nel nome di Jorge Luis Borges, succeduto a Shakespeare quale fonte ispiratrice.

Ben presto, colpiti dal fascino dell’allestimento, dalla suadente colonna sonora di Roberto Salvadori, dall’eleganza compositiva che scivola su quel tappeto acquoreo (fra il Gange e il Corno d’oro), di Borges si perdono le tracce. Lui come noi, dispersi nel labirinto dell’esistenza. Che Punzo punteggia di cabale e dissolvenze: echi scespiriani della foresta di Birnam in quei guerrieri, canne al vento, che incalzati dalle percussioni disegnano una travolgente parata-dressage; i libri che galleggiano come barchette di carta in balia della corrente. Acqua su acqua, verità su finzione. «Tutto accade qui per la prima volta, tutto il passato torna come un’onda e tutte queste cose sono qui adesso» sentenzia Borges. Alla fine, ormai adulto, il bambino si stacca dal padre e cammina sull’acqua, non per grazia ricevuta ma per consapevolezza acquisita: quella di un tempo che non ci appartiene epperò vale la pena costruire, giorno dopo giorno. Anche fingendo e fantasticando. Sarà l’abbrivio di un nuovo inizio?