«Dopo un anno non abbiamo ancora imparato: vediamo le nostre istituzioni prendere misure anti-Covid sulla base di una fotografia istantanea dei dati, senza alcuna capacità predittiva, mentre ormai dovremmo saper prevedere quali conseguenze avrà tra quindici giorni un incremento dei contagi registrato oggi». Alessandro Vergallo, il presidente del sindacato degli anestesisti rianimatori ospedalieri (Aaroi-Emac), è seriamente preoccupato, come lo è la società scientifica Siaarti a cui la sua sigla sindacale fa riferimento.

Dottore, qual è la situazione nei reparti di terapia intensiva degli ospedali italiani oggi?

Grave, e siamo preoccupati perché dal nostro punto di osservazione vediamo che mediamente sul territorio nazionale il famoso valore di cut off del 30% di pazienti Covid, rispetto al totale dei ricoverati in rianimazione, è stato superato già quasi una settimana fa. Naturalmente dobbiamo tenere conto dei posti veri, non quelli attivabili, o ricavabili anche dai lettini delle sale operatorie.

Siamo proprio nelle condizioni di un anno fa?

No, non siamo in quelle condizioni drammatiche. Però stiamo paragonando scenari diversi soprattutto per due motivi: il primo è che un anno fa la pressione epidemica si riversava su strutture ospedaliere di elevato standard mentre oggi si manifesta in tutto il Paese e in particolar modo in regioni e territori già sofferenti dal punto di vista sanitario. E il secondo fattore, forse più importante, è che oggi la diffusione del virus è molto più ampia, in Italia e in tutta Europa, perciò è ovvio che un incremento percentuale su contagi così elevati può diventare drammatico in pochissimo tempo.

L’età media dei ricoverati si è abbassata?

Assolutamente sì, almeno di un decennio. Oggi è poco al di sotto dei 60 anni.

La durata della degenza è diminuita? Il sistema sanitario riesce a dare migliori risposte?

Questo è un dato di più difficile interpretazione perché risente del turn over tra i pazienti che entrano e quelli che vengono dimessi, trasferiti o che muoiono. Però a spanne ci sembra di poter dire che la durata media non ha avuto grandi variazioni. Quello che ci preoccupa, relativamente alla fascia d’età di cui stiamo parlando, è il dato dei decessi, che non è molto inferiore a quello riguardante la popolazione più anziana della prima ondata. Ci stiamo interrogando sui possibili motivi: uno di questi potrebbe essere la degenza troppo prolungata in reparti di sub intensiva, prima che arrivino alla nostra osservazione. In altri termini, proprio la maggiore preparazione del sistema ospedaliero nell’accogliere questo tipo di pazienti potrebbe condizionare un’attesa eccessiva prima del ricovero in rianimazione.

Cosa è cambiato rispetto ad un anno fa nell’organizzazione ospedaliera? Il numero di posti in terapia intensiva è mediamente aumentato? C’è più disponibilità di anestesisti e personale specializzato?

Il numero di letti è aumentato, ma non quanto le istituzioni nazionali e regionali sostengono: partivano da circa 5 mila posti in epoca pre pandemica, ed erano stati annunciati 10 mila posti nel giro di un anno. Un numero che sia noi che la Siaarti avevamo ritenuto assolutamente irreale, sostenendo che si potevano aggiungere al massimo 3 mila posti, mantenendone la qualità ovviamente. Oggi siamo al massimo a 7500 posti veri in terapia intensiva. Rimane stabile anche il problema del personale: abbiamo reclutato tutti gli anestesisti già formati disponibili in Italia (qualche centinaio), abbiamo supplito addirittura con il richiamo dei neo pensionati, su base volontaria naturalmente, e con i colleghi specializzandi degli ultimi due anni (circa un migliaio), ma più di questo non riusciamo a fare.

Quindi non ci sono grandi differenze?

No, anche perché i nostri anestesisti ospedalieri sono stanchi e provati: da ferie non godute, turni massacranti, straordinari non pagati e blocco di qualunque tipo di attività altra, per esempio quella formativa. Con un grande impatto anche sulla vita privata di una popolazione, la nostra, che conta il 65% di colleghe donne.