L’accelerazione tecnologica di cui siamo testimoni esibisce la possibilità pressoché infinita di scambiare informazioni, in un globo ovunque attraversato da inesauribili virtualità comunicative. Ne risulta l’immagine d’un mondo fatto a sua volta soprattutto di immagini, il cui continuo fluire rende in buona parte obsoleti i canali tradizionali di trasmissione del sapere tanto per chi assiste a questa rivoluzione epocale con sgomento (e magari con un certo senso di inadeguatezza), quanto per le nuove generazioni (i veri o presunti «nativi digitali»). Come scrive Federico Vercellone nel suo ultimo libro (Il futuro dell’immagine, il Mulino, pp. 140, euro 15,00), tutto lascia pensare che ci troviamo «dinanzi a un mutamento dei paradigmi della trasmissione culturale che non ha precedenti. Sotto la spinta dell’immagine, il canone culturale viene sottoposto a una radicale trasformazione: un mutamento che sovverte i codici e i canali della trasmissione della tradizione e del suo senso».
Di fronte a questo esito estremo del conflitto antichissimo fra parola e immagine – nel quale tuttavia, questa volta, a profilarsi è la drammatica e forse irrimediabile sconfitta della parola – gli atteggiamenti sembrano così in qualche modo polarizzarsi. Da una parte c’è chi, ascrivendosi al partito della nostalgia e della reazione, prende posizione per una «nuova iconoclastia». Dall’altra quanti vedono con favore il cambiamento, disposti a sostenere qualunque novità tecnologica come se si trattasse (ironia non da poco, per un progressismo che vorrebbe fare della razionalità dispiegata e trionfante il proprio vessillo) di una sorta di appello epocale, da salutare quasi alla stregua d’un destino che ci trascende. Ecco allora (come faceva notare qualche tempo fa Roberto Casati, in un prezioso volume: Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, Laterza 2013) «ministri affrettati e coloni digitali zelanti» celebrare con entusiasmo e con ingenuità a volte un po’ sospetti ogni surrogato elettronico delle tradizionali forme di trasmissione del sapere, anche di quelle che sostituibili non sarebbero affatto (come la lettura, appunto), perché capaci di proteggere una delle nostre risorse più preziose: l’attenzione.
Confrontandosi con i risultati filosoficamente più interessanti degli studi sull’immagine che hanno lasciato il segno negli ultimi anni (da Stoichita a Belting, da Bredekamp a Freedberg, per limitarsi a qualche nome), il libro di Vercellone si sviluppa intorno a una duplice considerazione. Primo: in questo rinnovarsi del conflitto fra parola e immagine, limitarsi a denunciare in blocco la «società dello spettacolo» (secondo la fortunata ma un po’ semplicistica formula di Guy Debord) significa riproporre quella vulgata platonica la cui idiosincrasia nei confronti dell’immagine non può che tradursi infine in un mero atteggiamento regressivo. Da questo punto di vista, ha ragione l’autore a invitarci a riflettere fra l’altro sulla sorprendente affinità che lega un simile atteggiamento all’iconoclastia violenta che da sempre contraddistingue le strategie del radicalismo religioso professato all’insegna del terrore.
Secondo: se vogliamo davvero riconoscere i bisogni che determinano oggi l’inflazione e l’iperproduzione delle immagini, dobbiamo smettere di catalogarle semplicisticamente come mere apparenze, e piuttosto disporci a ripensarle quali «tessuto narrativo preliminare» delle nostre vite, tanto nello spazio pubblico quanto in quello privato. Tale è l’ambiente dove volere o no ci muoviamo, e la cui conoscenza è indispensabile all’autocomprensione dell’odierna soggettività e del suo accresciuto bisogno di riconoscimento.
Si tratta peraltro di capire in che modo, in quella che il filosofo coreano Byung-Chul Han ha recentemente chiamato «la nuova società del controllo psicopolitico» (Psicopolitica, Nottetempo, 2016), si possa eventualmente davvero profilare un autentico spazio di libertà per il soggetto. Ecco perché il programma di una rinnovata «etica dell’immagine» (cui accenna Vercellone in conclusione del suo libro) è giustamente ambizioso, e ai suoi sviluppi bisogna guardare con il massimo interesse.