Quando nel 1965 fu ammessa all’osservatorio di Monte Palomar, l’astronoma Vera Rubin per prima cosa incollò una figurina di cartone sulla porta di un bagno maschile. «Ecco il bagno delle donne», spiegò. All’epoca, i laboratori non prevedevano toilette femminili, tanto la scienza era roba per soli uomini. Grazie all’osservazione delle galassie, Rubin anni dopo ipotizzò l’esistenza della «materia oscura», quell’80% di universo di cui percepiamo la massa ma che non riusciamo a osservare direttamente. Scoprirne la natura è forse la maggiore sfida per la fisica attuale.

Oggi, nei dipartimenti di fisica, matematica e ingegneria i bagni per le donne sono usati ancora molto raramente. Di scienziate «ce n’è poche o punto», come avrebbe detto Margherita Hack. È un problema che nasce da lontano: il luogo comune secondo cui la scienza non è adatta alle donne separa ragazzini e ragazzine sin dalla più tenera età, quando agli uni si regala il «piccolo chimico» e alle altre le solite bambole. Perciò, nonostante tutti i test sugli apprendimenti scolastici farebbero pensare il contrario, a laurearsi in materie scientifiche sono soprattutto uomini. E nei pochi laboratori in cui le donne sono maggioranza, come in medicina e biologia, ruoli di vertice e finanziamenti sono riservati ai maschi.

Una ricerca pubblicata recentemente dalla rivista Lancet dimostra che non è solo una questione di equità violata. Ad esempio, aumentare la partecipazione femminile significa anche produrre farmaci migliori, perché le scienziate sono più attente al genere dei pazienti e riconoscono la diversa efficacia delle molecole su uomini, donne e persone transgender. Dunque, ridurre il «gender gap» aprirebbe la ricerca a prospettive innovative e, alla lunga, cambierebbe la nostra percezione del mondo.

Per raggiungere l’obiettivo, non basterà ottenere più meritocrazia nei concorsi. Anche il più freddo algoritmo di valutazione può risultare discriminatorio, se la disparità di genere si nasconde a monte: come confrontare equamente i curriculum di una donna e di un uomo, senza tenere conto delle difficoltà supplementari che incontra una ricercatrice? Bisognerebbe dunque misurare gli effetti di culture e sistemi di welfare patriarcali, spesso nascosti ma ineludibili. Il problema, in fondo, è lo stesso di Monte Palomar: c’è una grande materia oscura là fuori, ma non ce ne accorgeremo finché al telescopio ci saranno solo uomini.