Come in tutte le isole, a Ventotene il distanziamento è dimensione di vita, pratica acquisita nei tempi lunghi della storia – e qui, terra di esilio e di confino da duemila anni fin quasi ai nostri giorni, più che altrove. Sarà per questo che quando chiedo ad Annarita com’è andata con il lockdown, lei scuote le spalle e risponde senza esitare: «Benissimo». Poi una pausa: «I problemi semmai vengono ora».

Di cognome Annarita si chiama Matrone. La sua famiglia abita nell’isola da generazioni, da quando, nella seconda metà del Settecento, il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone emanò un decreto promettendo casa e terreno a chi fosse disposto a trasferirsi in questo luogo bellissimo e inospitale, privo di sorgenti d’acqua dolce e battuto da venti violenti. All’appello – così vuole la storia locale, intrisa di leggenda e di racconti orali – risposero per prime ventotto famiglie provenienti da Torre del Greco e da altre località della Campania: i Matrone appunto, i Romano, gli Aiello, gli Iacono…

Annarita, biologa, lavora per il museo dedicato alle migrazioni degli uccelli che ha sede in un edificio nella parte alta di Ventotene, il vecchio Semaforo occupato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Fra i suoi compiti, guidare noi forestieri per sentieri impervi e polverosi alla scoperta di piante profumate di cui ci spiega, insieme rapida e appassionata, gli usi – un sapere di famiglia, più che di studi universitari – su su fino a un tramonto fatto apposta per Instagram, il cerchio fiammante del sole che si immerge nel mare color indaco. Solo il raggio verde ci elude, e verrebbe da dire: per fortuna.

È una stupenda serata d’estate e i mesi della quarantena sembrano lontanissimi. Ce lo ricordano implacabili le mascherine che portiamo, adesso – all’aria aperta – ammainate sul mento o appese al braccio, ma prima, dentro il museo, con doverosa disciplina a coprire naso e bocca.

A Ventotene finora non ci sono stati casi di questa malattia nuova con il suo nome alieno, da brutto film di fantascienza, il Covid-19. E non devono essercene, aveva detto al telefono un agente immobiliare, altrimenti salta tutto, in un’isola di neppure due chilometri quadrati. Un’isola che d’inverno ha tre o quattrocento abitanti stanziali e adesso si riempie giorno dopo giorno di persone desiderose di sole, di mare, di vacanza, dopo una clausura che ha cancellato la primavera.

La voglia di normalità e la necessità di cautela procedono di pari passo, sghembe, come una coppia male assortita ma costretta dai fatti a rimanere solidale. Ai nuovi arrivati la temperatura viene presa due volte, all’imbarco a Formia e di nuovo quando si scende dall’aliscafo, quasi fosse possibile ammalarsi nella traversata di un’ora e un quarto. E al piccolo supermercato in piazza Castello si fa la coda fuori come ai tempi del lockdown, perché non possono entrare più di tre persone alla volta. Ma sull’unica spiaggia lunga dell’isola, Cala Nave, e sugli scogli piatti sotto il faro, là dove duemila anni fa i Romani costruirono le peschiere per rifornire la tavola della villa imperiale, la distanza fra i lettini in certi momenti scende ben sotto il metro regolamentare.

E la sera nei ristoranti capita che le mascherine dei ragazzi di servizio ai tavoli tendano a calare a mano a mano che le ore passano e affiora la stanchezza.
A Ventotene, come in gran parte d’Italia, il turismo è il motore dell’economia. Ma la domanda, qui e altrove, si impone oggi – con la pandemia ancora in corso – più urgente che mai: quale turismo? quale economia? «Dobbiamo stare molto attenti», dice Fabio Masi della libreria Ultima spiaggia. E non si riferisce solo al rischio del coronavirus.

La libreria di Ventotene è nota anche fuori dai confini dell’isola, e a ragione, perché è la prova concreta della vitalità di un mestiere che in tanti considerano morituro o già morto. Ventotenese per parte di madre, Masi ha allestito lo spazio – l’antica farmacia del paese – con la mano sicura di chi ha alle spalle parecchi anni di esperienza e ha capito che per venderli, i libri, bisogna conoscerli e conoscere chi li compra o li potrebbe comprare. Una parete è dedicata ai libri di mare, mentre la saletta interna, piena di copertine colorate, attira a ogni ora le bambine e i bambini che giocano sulla piazza, e in libreria entrano con la disinvoltura degli habitués, per nulla impacciati dalla mascherina. Ovviamente non mancano le novità, ma sono selezionate con discernimento, mettendo in risalto le proposte degli editori indipendenti accanto ai vincitori dei premi letterari. E il banco all’entrata è occupato dai libri sulla storia di Ventotene, molti dei quali pubblicati dalla stessa Ultima spiaggia – non solo libreria, ma anche minuscola casa editrice.

È una scelta precisa, un modo chiaro di ricordare a chi arriva sull’isola, magari scendendo per poche ore da una barca, che il turismo non è neutro, che ogni luogo possiede tratti unici, e questo in particolare ha alle spalle un isolamento lungo, ben oltre l’attualità in cui siamo calati.

Di Ventotene l’isolamento ha plasmato nei secoli la forma e l’esistenza, da quando Augusto – dopo aver fatto costruire la sontuosa villa di Punta Eolo, scavando nel tufo dell’isola allora disabitata – vi relegò la figlia Giulia, rea di malcostume (cioè di ribellione), fino al confino fascista, la «villeggiatura» cui furono costretti tanti di coloro che si opponevano alla dittatura o erano comunque considerati pericolosi. Fra gli altri, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Pietro Secchia, e poi Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che qui elaborarono il Manifesto per un’Europa libera e unita: il Manifesto di Ventotene, appunto.

Una storia inseparabile dall’altra, quella dell’isolotto di fronte, verso cui lo sguardo è attratto come da una calamita: Santo Stefano, compatta massa rocciosa sulla cui sommità si distingue il profilo del carcere borbonico, eretto negli ultimi anni del Settecento sullo schema del panopticon di Jeremy Bentham. E a proposito di isolamento: «Ogni cella ha una porta ed una piccola finestra ferrata che guardano nel cortile; e sul muro opposto ha un buco o feritoia lunga un palmo, stretta tre dita, dalla quale trapassa l’aria esterna», scrisse nelle sue Ricordanze Luigi Settembrini, alla metà del XIX secolo rinchiuso per otto anni a Santo Stefano, uno degli ospiti celebri della prigione, come l’anarchico regicida Gaetano Bresci e il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Negli ultimi tempi le visite allo storico penitenziario, definitivamente dismesso nel 1965, sono state sospese: insicuro l’approdo, fatiscente la struttura. I 70 milioni di euro stanziati nel 2016 per il recupero del carcere sono rimasti fermi in quello che i media locali definiscono un «limbo burocratico» – il solito impasto di cavilli, microconflitti e inerzia, che tanto influisce sull’andamento delle cose in Italia.

Adesso, però, la situazione pare essersi sbloccata. Nominata a gennaio commissario straordinario del governo per Santo Stefano, l’ex europarlamentare Pd Silvia Costa non si è arresa al rallentamento da Covid-19 e ai primi di giugno ha organizzato un tavolo istituzionale in cui è stato firmato un accordo tra Mibact e Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo, ed è stata rinviata di un anno, a fine 2021, la scadenza entro la quale il progetto di recupero deve essere operativo, pena la restituzione dei soldi stanziati.

Che sia presto per brindare è evidente, ma «di sicuro è un passo notevole», commenta Anthony Santilli, curatore del Centro di ricerca sul confino politico e la detenzione. Certo, tenendo conto che il tempo è poco e il decorso della pandemia resta vago, la definizione del progetto si prevede complicata.
I nodi da affrontare sono grandi, dalle modalità di restauro del complesso borbonico alla messa in sicurezza degli approdi in quella che è anche un’area marina protetta, ai criteri di un recupero di respiro insieme locale ed europeo, come auspica l’Associazione per Santo Stefano in Ventotene, che si batte da anni per valorizzare il carcere in una prospettiva che metta in rilievo i legami forti tra le due isole.

Ma in questa sera d’estate, con le persone che chiacchierano sedute ai tavolini e i bambini che si rincorrono al centro della piazza, prevale l’ottimismo. Sul muro accanto all’ingresso di un caffè c’è una targa, «qui aveva sede una delle mense dei confinati», uno dei molti discreti segnali che Ventotene offre a chi viene da fuori perché la sua visita non resti ingabbiata nel «qui e ora» del tuffo in mare e della cena in pizzeria. Sono questi richiami al passato, come la miscela di competenza e di passione delle guide che conducono nei luoghi storici e naturalistici dell’isola, a rendere speciale il turismo di Ventotene – un bene da non disperdere, anche e soprattutto nei tempi duri della crisi.