I migranti aspettano. Sdraiati all’ombra delle palme con gli occhi chiusi o con le braccia penzoloni sulle ginocchia. Fissano il vuoto. Se si alzano camminano piano. Se prendono un frutto dal tavolo della Croce Rossa lo mangiano piano. Il silenzio è assoluto, anche le cicale danno meno fastidio del solito. Sotto la pineta, ma è solo uno spartitraffico, sono quasi tutti sudanesi. Ci sono anche eritrei, qualcuno arriva dal Mali. Sugli scogli adesso fa troppo caldo. Solo un uomo in riva al mare con il suo ombrellone rompe la linea dell’orizzonte. Cosa pensano? Quelle ore di riflessione silenziosa devono passare come minuti, non può che essere così, altrimenti sarebbero tutti impazziti. Sono lì da un mese. Adesso in trenta e si danno il cambio. Gli altri, circa centocinquanta, sono alloggiati nei locali della stazione di Ventimiglia. Sono tutti liberi ma non li vuole nessuno. Vanno e vengono come se fossero fantasmi. Sono giovani, hanno tutto il tempo che vogliono e se lo prendono per vivere. Alcuni ci hanno messo mesi o anni per arrivare su quella soglia che è la conferma di un miracolo: una nuova vita in un altro mondo. Adesso aspettano. La solitudine, l’attesa e l’idea della morte – perché potrebbero essere tutti annegati – sembrerebbero impossibili da sopportare, per loro invece sono niente. Aspettano.

 

Sembra la scena di una partenza, ma l’immobilità è assoluta. Anche del paesaggio. Il mare è fermo. Le tende, i teloni e i materassi appoggiati sugli scogli sono scoloriti dal sole. Non c’è un filo di vento, le carte da gioco sparpagliate dappertutto sono incollate ai sassi. Gli striscioni sul lungomare ricordano una protesta che non c’è più e dire che un mese fa, quando è cominciato tutto, c’era spazio anche per i sogni: una girandola di foglie secche volta le spalle al posto di frontiera, sulla corolla hanno scritto Citoyen du monde soyons partisans d’un monde sans frontieres. La Francia è cinquanta metri più in là. Quello è il muro. Non c’è niente da fare. Bisogna prendersi tutto il tempo che serve per aspettare che in questi cento metri di confine dove non succede niente, sotto la scogliera dei Balzi rossi, ogni dettaglio ricomponga l’immagine dell’impalpabile destino che attende il vecchio continente.

 

L’Europa oggi è questa. La parete rocciosa che incombe e che conserva tracce dell’antica via romana che portava in Gallia -“una continuità eccezionale in un sito eccezionale” (ironia per turisti) – il mini market di sotto, ultimo avamposto italiano per consumare cose inutili, gli europei sudati e distratti che fanno la fila al bar e al bagno e quelli con un briciolo di umanità che scendono dall’auto con l’imbarazzo di chi porta un’anguria per dissetare degli sconosciuti. La solidarietà, anche quella militante. Sincera ma desolata, destinata a non mutare il corso degli eventi. Sono i ragazzi del presidio permanente No Border. Per alcuni, quei pochi rimasti, è un’esperienza che ha cambiato lo sguardo sulle cose, anche sulla vita. Tre poliziotti francesi vigilano su tutto con l’ingrato compito di prestare il volto all’Europa peggiore degli ultimi settanta anni. Di inquietante c’è che l’attesa in un luogo così si trasforma in una tensione verso qualcosa di ignoto. Dove andranno? Cosa ci starà per succedere?

 

Le loro storie si somigliano. Non sono rassegnati. Dietro le quinte dei Balzi rossi ogni giorno qualcuno tenta di arrampicarsi lungo sentieri mai esplorati e così nascono nuove storie – tutti ormai conoscono quei passaggi delle Alpi marittime. Ahmed ha finito i soldi perché due volte ha provato a prendere il treno per Parigi e due volte i francesi lo hanno ricacciato indietro. Ha solo cinque euro. Anche se i ministri europei hanno già mostrato di voler perseverare nella politica criminale che lo ha portato a Ventimiglia, Ahmed confida in un altro “meeting” dopo il fallimento di due settimane fa e ancora non se la sente di seguire i suoi amici nei boschi. Ha paura di non farcela, servono gambe forti. Sarebbero dieci o quindici chilometri di arrampicata, però qualcuno ce l’ha fatta, hanno telefonato dalla Svezia e dalla Germania. Ma lui vorrebbe vivere proprio in Francia e con un dito indica Mentone. In Libia si è fermato alcuni mesi per fare un po’ di soldi, ha imbiancato case ed è riuscito a racimolare 600 dollari, quanto basta per una traversata. Poi Sicilia, Roma e Ventimiglia. Dice che i libici sono tutti vestiti come militari per cui è come se la polizia fosse ovunque. Non gli hanno fatto del male, forse ha subito qualcosa di peggio, per la prima volta in vita sua si è sentito trattato come “uno zingaro”. Lui è un ingegnere petrolifero: solo dopo questa affermazione concede il suo sguardo, difficile da sostenere. Allora buona fortuna.

 

Gli africani hanno poca voglia di parlare. Hanno già detto tutto quando Ventimiglia era il centro dell’Europa e meno male che qualcuno ha scattato quella foto dei migranti infreddoliti sugli scogli con addosso le coperte termiche della Croce Rossa, una immagine potente e dolorosa della condizione di ogni esule umiliato in mezzo ai propri simili. La foto rimarrà ma l’indignazione è durata tre giorni. Quando si sbloccherà la situazione? I migranti aspettano l’Europa e dicono che sugli scogli potrebbero rimanerci anche un anno. Impossibile. Per il giovane sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano (Pd), che da un mese gestisce con saggezza l’accoglienza dei profughi, un flusso regolare di migranti in città è quasi ordinaria amministrazione. Ma questa volta ne sono arrivati troppi. Non si sente abbandonato, anzi, la “disattenzione” dei media per lui è una buona notizia. In silenzio, lascia intendere, qualcosa comincia a muoversi. Non per merito della politica. Il governo Renzi-Alfano? Non sta a lui dire dell’incapacità di questo governo, per cui se la cava con diplomazia. Ma non si lamenta. “In questo momento – spiega – diamo ospitalità a circa duecento persone ma non possiamo farlo a lungo. I residenti sono stati splendidi, ancora adesso prevale uno spirito di solidarietà ma qualcuno comincia a lamentarsi. Dobbiamo cominciare a ragionare su un orizzonte temporale, il cerino non può rimanere in mano al Comune di Ventimiglia”. Ioculano non si nasconde. Questa esperienza straordinaria fa di lui uno dei sindaci più titolati a parlare di immigrazione (al Pd…) tentando di infrangere qualche tabù. “Non dobbiamo predicare solidarietà a tutti i costi – spiega – ma dico che dobbiamo ragionare seriamente su come gestire questo fenomeno strutturale dotandoci di strutture operative e di risorse per l’accoglienza. Se tranquillizziamo l’elettore medio sul tema della sicurezza sarà chiaro a tutti che i profughi sono brave persone che vanno aiutate”.

 

A Ventimiglia ormai la polizia lascia fare e la latitanza del governo sembra essere l’unica strategia utile per uscire dall’emergenza. La situazione, lentamente, si sbloccherà: all’italiana. I migranti non sono più gli stessi del primo blocco di giugno, alcuni sono riusciti a partire, altri sono tornati sui propri passi. Ci riproveranno. La soluzione sta nel chiudere un occhio, o due. Qui, in stazione, in pineta, tra gli agenti che sorvegliano il litorale, tutti parlano di frontiere più permeabili: il Brennero, per esempio. Ma bisogna dirlo sotto voce e soprattutto bisogna procurarsi un altro biglietto per un’altra destinazione. I cinque dollari di Ahmed non bastano. I liguri che vivono sul confine conoscono bene i passaggi per raggiungere la Francia, il problema non è arrivarci, è attraversarli. Eppure sembra che i mastini della gendarmerie appostati sulle montagne abbiano abbassato un po’ la guardia: la chiameremo “soluzione alla francese”. Questo e nient’altro è capace di fare l’Europa dei “meeting”, come se la silenziosa avanguardia sui Balzi rossi non avesse già smascherato il fallimento di una fortezza ormai decrepita che si sta sgretolando nelle sue fondamenta.