«Era dunque già la Toscana potente, piena di religione e di virtù, aveva i suoi costumi e la sua lingua patria: il che tutto è suto spento dalla potenza romana. Talché, come si è detto, di lei ne rimane solo la memoria del nome». Così Machiavelli sulla fine della civiltà etrusca, scomparsa nel nulla da cui era venuta. Negli stessi anni in cui Machiavelli faceva la spola tra Firenze e la corte papale di Roma e stava ancora lavorando a quei Discorsi su Livio che non avrebbe mai pubblicato in vita, un altro uomo rifletteva sullo stesso problema: perché delle civiltà, nel suo caso quelle dell’Africa, spariscono senza lasciare traccia? «Non è da dubitar – questa la sua risposta – che quando i Romani, che fur loro nimici, dominarono quei luoghi essi, come è costume dei vincitori e per maggior loro disprezzo, levassero tutti i loro titoli e le lor lettere e vi mettessero i loro, per levar insieme con la dignità degli africani ogni memoria e sola vi rimanesse quella del romano popolo».
Quell’uomo era, come Machiavelli, un diplomatico, non però della Repubblica fiorentina, ma del sultano wattaside del Marocco. Il suo nome era al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi, ma da quando dei pirati cristiani lo avevano catturato e offerto in regalo a papa Leone X, aveva preso il nome del suo nuovo padrone e padrino di battesimo. Non sappiamo se Leone l’Africano e Machiavelli, che frequentarono gli stessi ambienti negli stessi anni e avevano molte conoscenze in comune (come il grande Paolo Giovio), si siano mai parlati; né se il primo abbia intercettato il manoscritto dei Discorsi e il secondo quello della Descrittione dell’Africa. Di sicuro, avrebbero entrambi letto con curiosità un libro come questo del linguista tedesco Harald Haarmann, Culture dimenticate Venticinque sentieri smarriti dell’umanità (Bollati Boringhieri, pp. 290, e 22,00).
Culture dimenticate non è una versione riveduta e corretta del vecchio e ristampatissimo Civiltà sepolte di Ceram, quel «romanzo dell’archeologia» che raccontava le straordinarie scoperte di Troia e della Valle dei Re, di Pompei e Tenochtitlan. Mentre infatti le civiltà raccontate da Ceram, una volta riportate alla luce, erano piano piano divenute patrimonio comune, quelle descritte da Haarmann non sono mai entrate nella nostra memoria culturale, nemmeno nel caso di civiltà ancora oggi in vita. Molti di noi hanno sentito nominare la regina di Saba, o i moai dell’Isola di Pasqua (capitoli 19-20), ma chi sapeva dell’esistenza dei chachapoyas (cap. 17), peruviani biondi e con gli occhi azzurri, che stupirono già i conquistadores per quei tratti somatici così familiari e frutto della loro discendenza da popolazioni europee (forse celtiche) arrivate in Sudamerica molto prima degli spagnoli? E, ora che siamo al corrente della loro esistenza, come e dove inseriamo questi gringuitos – come li chiamano spregiativamente i peruviani – nella storia delle civiltà?
Combinando archeologia e linguistica, antropologia e genetica, Haarmann ci aiuta a rispondere a queste domande, accompagnandoci in un percorso lungo più di trecentomila anni, segnato da venticinque culture cancellate dalla storia. Dieci pagine per civiltà: poco, anche per gli amanti delle sintesi stringate, ma tutto spiegato con fiuto per i dettagli veramente rivelatòri di ognuno di questi piccoli mondi.
Culture dimenticate è una lettura salutare per gli studiosi di qualunque periodo storico, perché ci mostra come la necessità di adottare un approccio meno eurocentrico e lineare non valga solo per i periodi più vicini a noi, come la storia della prima età moderna, ormai vista non più come la marcia trionfale dell’Europa, bensì come momento di confronto paritario con imperi che avrebbero capitolato sì, ma solo tre secoli dopo, con la Rivoluzione industriale. Ecco, lo stesso vale anche per la preistoria: «Le storie d’Europa o del mondo partono spesso dall’Egitto e dalla Mesopotamia, perché da lì provengono invenzioni importanti come lo stato e la scrittura. Il minuscolo Israele non viene mai omesso perché vi si fondano le radici della cristianità europea, e anche alla piccola Grecia viene dedicato ampio spazio per via della democrazia, della filosofia e del teatro». Isolare queste, e non altre, radici della nostra storia comune ha avuto però ragioni e conseguenze ben precise: le nostre società, organizzate secondo una più o meno rigida gerarchia di ruoli e generi, inquadrate in stati-nazione, burocratici ma caratterizzati da un più o meno marcato pluralismo democratico, sono il frutto di quel passato lì, e non di altri.
Come ogni buon libro di storia, quello di Haarmann parla insomma anche, se non soprattutto, dell’uomo presente, perfino quando, come nel primo capitolo, il discorso è sull’Homo heidelbergensis, una delle tre specie che vivevano in Europa prima dell’arrivo del sapiens. Nel 1994 vennero ritrovate alcune lance appartenenti a individui di quella specie (a tutti gli effetti le più antiche armi da caccia mai rinvenute). Queste lance erano posizionate non in un luogo casuale, come dimenticate, ma accanto a dei crani di cavallo molto probabilmente sacrificati ritualmente. «In questo modo – commenta Haarmann – gli inizi della religiosità si spostano molto indietro nella storia dell’evoluzione, molto prima della nostra specie». Una rivincita di Vico su Darwin? Di certo un notevole spostamento all’indietro delle prime tracce di contatto con il soprannaturale, anche quando il sentimento religioso si estrinseca nei primi templi: non quelli urbani della Mesopotamia e dell’Egitto, ma quelli – risalenti al decimo millennio avanti Cristo – rinvenuti nel sito mesolitico di Göbekli Tepe, in Anatolia (cap. 4).
Le culture dimenticate di Haarmann non riservano però piacevoli sorprese solo agli assetati di sacro, ma anche a chi crede in una società più egualitaria nell’aldiquà. È il caso della cosiddetta civiltà danubiana (o «Europa antica»), scoperta negli anni settanta dell’Ottocento dalla baronessa ungherese Zsófia Torma (a cui nessuno all’epoca diede il minimo credito, se non un altro dilettante di genio come un certo Heinrich Schliemann), e da un’altra donna, l’archeologa lituana Maria Gimbutas, portata all’attenzione dei colleghi. Con l’Europa antica – una civiltà di alto livello economico e culturale, sviluppatasi tra il VI e il III millennio a.C. – ci troviamo di fronte non a una società patriarcale e neanche matriarcale (come pure ce ne furono), bensì a una in cui «i rapporti di genere erano bilanciati» e che «ci regala un sapere molto importante: è possibile raggiungere alti standard socioeconomici e tecnologici, anche se la società non è organizzata in maniera gerarchica». Perché, allora, continuiamo a considerare i modelli di civiltà del Vicino Oriente e dell’antico Egitto come la via maestra che ha portato alle società complesse che conosciamo e in cui viviamo? Può darsi che il motivo sia – seppure nella forma più dolce della rimozione che in quella violenta della distruzione – lo stesso che ha portato il leader dei salafiti del Bahrain a cementare le rovine di Dilmun, una metropoli cosmopolitica nel Golfo Persico del III millennio a.C., per costruirvi squallide case per famiglie di probi musulmani (cap. 10); oppure lo stesso motivo che ha spinto i funzionari (e gli archeologi) cinesi a occultare il ritrovamento di mummie dai capelli biondi nello Xinjiang per frenarne la riappropriazione ideologica da parte degli uighuri (cap. 10). Il libro di Harald Haarmann ci invita a mettere in discussione questa rimozione e a immaginare un futuro diverso per il nostro passato, e quindi anche per il nostro presente.