Venti soldati indiani uccisi da militari cinesi sull’Himalaya e tensione tra Cina e India ai massimi degli ultimi decenni. Queste le ultime evoluzioni del confronto a bassa intensità – e disarmato – lungo più di tremila km di confine ancora oggi conteso tra Cina e India.

Dal Ladakh orientale, a ovest, passando tra Nepal e Bhutan, fino all’estremo est dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, dal conflitto sino-indiano del 1962 le due potenze asiatiche si contendono porzioni di territorio in larga parte disabitate, a migliaia di km sul livello del mare, ma di grande rilievo strategico-militare.

LA LINEA TRATTEGGIATA su cui, per ampi tratti, Cina e India non sono riuscite ad accordarsi nemmeno come segno topografico provvisorio, si chiama Line of Actual Control (Lac).

A ridosso della Lac da quasi sessant’anni le rispettive truppe tengono posizioni ad alta quota, scontrandosi regolarmente in scazzottate, rigorosamente senza sparare un colpo. Dettaglio centrale per Pechino e New Delhi, mentre i tavoli delle trattative per risolvere la disputa territoriale si susseguono da decenni, mai risolutivi.

NELL’ULTIMO MESE e mezzo, la cadenza degli scontri tra soldati cinesi e indiani è aumentata, con entrambe le parti a denunciare invasioni territoriali. Pechino accusa New Delhi di aver costruito una strada «in Cina»; New Delhi accusa Pechino di aver spostato «migliaia di uomini e mezzi militari» fino a cinque km all’interno del «territorio indiano».

Data la natura impervia del territorio in questione e il disaccordo totale tra i due su dove finisca casa dell’uno e inizi quella dell’altro, è impossibile confermare la veridicità delle accuse bilaterali con l’ausilio di fonti terze.

Ma di certo la tensione è salita, tanto da costringere i vertici militari sino-indiani impegnati nell’area a una serie di meeting ufficiali, nell’obiettivo di sedare gli animi e iniziare una de-escalation reciproca della presenza bellica sul territorio.

Dall’ultimo vertice, datato 6 giugno, ne è uscito un accordo di massima sul «ritorno allo status quo», simbolo che al momento nessuno ha interesse ad aprire un vero e proprio conflitto armato. Ma, secondo le fonti indiane, durante i colloqui militari Pechino si sarebbe rifiutata di ritirare uomini e mezzi in porzioni di territorio pari a 60 kmq, per lo più lungo la riva nord del lago Pangong e nella valle di Galwan, entrambi nel Ladakh orientale.

NELLA NOTTE di lunedì 15 giugno, secondo le ricostruzioni offerte dall’esercito indiano ai media locali, i soldati indiani stavano scortando le truppe cinesi entro i confini «precedenti all’invasione di maggio» nella valle di Galwan.

Per motivi ancora da chiarire uno «scontro violento» si accende tra i due schieramenti: alcune fonti sostengono che i cinesi si siano a un certo punto rifiutati di obbedire alle indicazioni indiane; altre raccontando di un grande malinteso, con gli indiani che entrano per sbaglio nel territorio a influenza cinese. The Wire, autorevole portale di news indipendente indiano, parla di «spintoni» tra cinesi e indiani in un territorio «infido e montagnoso».

Il bilancio è però gravissimo: sarebbero almeno 20 morti tra gli indiani, 17 i feriti, secondo le autorità di New Delhi che, confermando le sue perdite, indica anche la presenza di «vittime» tra i cinesi. Pechino ufficialmente non conferma nulla, ma Hu Xijin, direttore del quotidiano cinese in lingua inglese Global Times, su Twitter dice di aver avuto notizia di «morti cinesi».

LUNGO LA LAC non moriva un soldato, cinese o indiano, dal 1975. Nella giornata di ieri, lo scontro è continuato a mezzo stampa. Il portavoce degli esteri cinese Zhao Lijian, in conferenza stampa a Pechino, ha accusato l’India di aver «violato gli accordi due volte il 15 giugno, provocando e attaccando le truppe cinesi».

Per contro, il ministero degli esteri indiano in una nota ha accusato la Cina di aver di nuovo «unilateralmente cambiato lo status quo», ribadendo che «le attività si sono sempre svolte entro il lato indiano della Lac. Pretendiamo lo stesso dalla Cina».