Mille dollari per vestire i panni di “soldato del califfo”: è il denaro che il braccio libico dello Stato Islamico offrirebbe a africani da Ciad, Sudan, Mali per rafforzare la propria presenza nel paese. Lo rivela l’intelligence libica: puntare ai paesi poveri è una strategia vincente. Secondo il colonnello Ismail Shukri, capo dei servizi segreti a Misurata, circa il 70% degli uomini del “califfato” a Sirte non sono cittadini libici, ma tunisini, sudanesi, egiziani, nigeriani e ciadiani. Che, aggiunge Jamal Zubia, portavoce del governo di Tripoli, non sono mossi dall’ideologia «ma dai mille dollari offerti, un sacco di soldi per molti africani».

Così l’Isis avanza e il governo di unità nazionale resta bloccato. Lo sanno bene i 23 paesi riuniti ieri a Roma, ospiti della Farnesina, per il terzo vertice anti Isis. Il padrone di casa, il ministro degli Esteri Gentiloni, sbandierando avanzamenti nella lotta allo Stato Islamico («Nel 2015 il 40% del territorio controllato da Daesh in Iraq è stato liberato, il 20% in Siria»), ha puntato dritto alla Libia: «L’attività di Daesh rischia di moltiplicarsi. Ci aspettiamo che il consiglio presidenziale formuli una nuova proposta di governo, che sarà presentata lunedì o martedì prossimi. Un punto di svolta per una comunità internazionale che vuole rispondere alle richieste del governo di unità libico in termini di sicurezza. Noi siamo pronti a rispondere».

Come? Probabilmente con un intervento militare. Non è un segreto che Londra e Parigi stiano scaldando i motori della guerra e Roma, che ha tentato la via negoziale, è pronta a cedere in cambio della guida di una campagna sotto l’egida Onu. Con la cacciata di Gheddafi, l’Italia ha perso un ricco partner economico e ora rivuole la sua parte.

A preparare il terreno è il segretario di Stato Usa Kerry che ieri ha avvertito i partner della crescente minaccia rappresentata dall’Isis in Libia: «L’ultima cosa che voglio è un falso califfato con a disposizione miliardi di dollari in riserve petrolifere». Secondo la comunità internazionale, unica barriera all’avanzata islamista è la formazione del governo di unità nazionale, promesso da oltre un mese ma ancora in stand by. Ma al di là dei boicottaggi interni (il 25 gennaio il parlamento di Tobruk ha rifiutato la proposta di esecutivo del premier designato al-Sarraj e chiesto la riformulazione entro 10 giorni), le difficoltà politiche sono dettate dalla frammentazione della Libia in poteri rivali, tribù, milizie e gruppi islamisti.

Per questo un intervento armato appare un’opzione controproducente, che potrebbe moltiplicare le resistenze e raddoppiare l’efficacia della propaganda islamista, soprattutto perché sarebbe diretto alla “messa in sicurezza” dei giacimenti petroliferi. Guerra per il greggio camuffata da guerra allo Stato Islamico? Di certo di stivali sul terreno ce ne sono già, francesi, britannici e statunitensi. La macchina della guerra sembra già partita, seppure ieri sia Parigi che Londra abbiano affermato di non voler inviare proprie truppe in azioni di combattimento. Solo intelligence e supporto aereo al futuro governo di unità.

Quello che invece non ingrana è il dialogo siriano, a rischio collasso: l’annuncio di ieri dell’inviato Onu de Mistura sull’apertura ufficiale del dialogo (dopo presunti ammorbidimenti delle parti) è stato subito sgonfiato. Lunedì le opposizioni dell’Hnc si erano dette soddisfatte dalle rassicurazioni sulla fine di raid russi e assedi governativi, pur minacciando di lasciare Ginevra nel caso di mancati progressi. E così ieri l’Hnc ha cancellato il meeting del pomeriggio con de Mistura, definendole inutile perché la Russia non ha interrotto i bombardamenti.

Lunedì Damasco aveva dichiarato di voler discutere della consegna di aiuti nelle città sotto assedio, mentre la Russia aveva fatto retromarcia sui gruppi islamisti: Mosca ha definito «realistica» e quindi accettabile la partecipazione di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam a causa delle dinamiche sul terreno, pur considerandoli terroristi. Da parte sua Jaysh al-Islam, dalla Svizzera, ha accusato il governo di «non essere interessato a raggiungere una soluzione». Un passo avanti e due indietro.

Infine, gli Stati uniti: da Roma Kerry ha chiesto alla coalizione anti-Isis maggiori sforzi economici: serve denaro – ha detto il segretario di Stato – per ricostruire le città irachene liberate e per affrontare la crisi umanitaria in Siria. Senza mancare di attaccare il presidente siriano Assad («È una calamita per il terrorismo, usa la fame come tattica di guerra»), Kerry in conferenza stampa ha ammesso che «la crisi siriana peggiora di giorno in giorno, per cui vedremo se chi dice di combaterlo sul terreno sarà in grado di raggiungere il cessate il fuoco».

Una stoccata alle opposizioni sostenute ciecamente per anni ma ora fonte di screzi per le posizioni irremovibili e, per Washington, controproducenti: mentre i gruppi anti-Assad discutono, la Russia guida un’efficace campagna aerea a sostegno del governo. Che avanza: ieri le truppe di Damasco hanno lanciato una nuova controffensiva su Aleppo, riprendendo una serie di villaggi a nord della città.

Chi non ammorbidisce le proprie posizioni è la Turchia che ieri ha criticato l’alleato Usa per la visita tributata al Pyd kurdo a Kobane: «Non si può dire che il Pkk è organizzazione terroristica e il Pyd no», ha detto il presidente Erdogan.