Dicono che qualora l’Italia si dotasse di un sistema di protezione dai licenziamenti collettivi per cessata attività, le imprese straniere cesserebbero qualsiasi investimento nel nostro paese. Il ragionamento ha la forza della tautologia, in un contesto viziato da trent’anni di dibattito pubblico orientato nella direzione della massima flessibilità, ovvero precarizzazione, del lavoro, approdato nell’abolizione dell’Articolo 18 (governo Renzi).

Il principio cardine è che l’occupazione possa svilupparsi solo in assenza di tutele. Non esiste naturalmente alcuna evidenza empirica che confermi questo assunto, ma per chi si è formato o conformato ai dogmi del neoliberismo si tratta appunto di un articolo di fede.

Io credo invece che sia sbagliato sempre, ma che diventi addirittura drammatico se applicato al delicato tema degli investimenti esteri. Bisognerebbe innanzitutto distinguere fra quelli finalizzati ad impiantare una nuova dinamica produttiva, e quelli destinati invece all’acquisizione di aziende già esistenti.

Una cosa è Ikea, che apre propri punti vendita, assume personale, sviluppa un indotto e un’attività ex novo. Un’altra è ArcelorMittal, che acquisisce Ilva al solo scopo di estrarne valore a breve termine, vampirizzandone il portafoglio clienti e determinando di fatto le condizioni di chiusura di un potenziale concorrente. Nel mezzo Whirpool, che cresce in Italia attraverso l’incorporazione di aziende locali, con i rischi e le opportunità dell’integrazione in un grande gruppo internazionale.

Solo nel primo caso possiamo parlare di un saldo netto positivo sul piano dello sviluppo e dell’occupazione, anche se sarebbe comunque corretto valutarlo nell’ottica di ciò che comunque va perso perché sconfitto nella competizione per i consumi. Negli altri due si può andare all’indietro, come spesso accade, e di rado in avanti.

Si dirà che questo è inevitabile nella stagione della globalizzazione e delle multinazionali, più adatte a muoversi in un ambiente strutturato a loro uso e consumo. Il punto tuttavia è che la politica dovrebbe avere esattamente il compito di ristrutturare un sistema che impone uno stato di crisi permanente e di impoverimento di massa, trovando proprio nella piena libertà di movimento dei capitali il proprio fulcro di funzionamento.

È certamente importante attirare investimenti esteri, ma lo è ancora di più impedire che vengano a scopo di razzia.

A che serve l’acquisizione di un’impresa italiana da parte di un gruppo estero che voglia semplicemente acquisirne know how e portafoglio clienti per poi sbarazzarsene? Quell’investimento sta portando valore o piuttosto determinando in origine le condizioni della sua distruzione?

Ecco perché noi proponiamo che chiunque porti all’estero parte della produzione, con conseguente riduzione di personale, debba restituire tutti i contributi in conto capitale ricevuti nell’ultimo quinquennio, così come eventuali sgravi contributivi o eventuali altri vantaggi fiscali.

Crediamo inoltre che in caso di abbandono, si debba introdurre l’obbligo di assicurare la continuità produttiva attraverso la cessione preventiva dello stabilimento, o in alternativa di versare una sanzione pari al 5% del fatturato degli ultimi 5 anni, da destinare alla rioccupazione dei lavoratori, preferibilmente secondo la formula del workers buyout.

A chi sostiene che si impedirebbe l’integrazione del nostro sistema produttivo nelle catene del valore globale, rispondiamo che il punto decisivo dovrebbe essere infatti come costituire filiere innovative capaci di stare sul mercato internazionale da protagoniste. Ma questo avrebbe dovuto essere esattamente lo scopo del Pnrr, che invece il governo Draghi ha portato nella solita direzione del sussidio alle imprese.

* L’autore è il responsabile economico di Sinistra italiana