Sul lago è tornata l’estate e mentre la cittadina svizzera comincia a prepararsi al fine settimana di Ferragosto – con un aumento visibile di turisti – il festival snocciola i suoi ultimi giorni di proiezioni. Come è andato questo «ritorno del cinema» lo sapremo coi dati, l’impressione però è di una bella energia, sale piene, una Piazza che ha ritrovato il suo grande schermo e il pubblico per festeggiare i suoi cinquant’anni con un programma che stasera presenterà Yaya e LennieThe Walking Liberty, il nuovo film di Alessandro Rak (L’arte della felicità, 2013; La Gatta Cenerentola, 2017), e che nella settimana ha alternato proposte diverse lungo quella linea di «alto/basso» (si sarebbe detto un tempo) oggi rispecchiamento di un’ idea del «genere» – o meglio dei generi in senso ampio e obliquo – su cui il nuovo direttore ha scommesso come guida per le sue scelte.

E dunque si va dal melò Monte Verità (di Stefan Jager) al dramma storico Hinterland (di Stefan Ruzowitzky) fino al memento mori (in «seconda serata») in forma di duetto emozionalmente estremo ma non senza una strana leggerezza tra Dario Argento e la meravigliosa Françoise Lebrun (La Maman et la Putain) in Vortex di Gaspar Noé, girato durante il lockdown, che ci conduce nell’appartamento di una coppia parigina – lui (Argento) critico cinematografico che sta scrivendo un libro, lei Lebrun psichiatra smarrita nel labirinto della sua mente vacillante e di parole dimenticate. L’unico figlio dei due è un tossico che cerca di crescere il proprio figlio sotto la sorveglianza dei servizi sociali, la casa della coppia è stracolma di manifesti di film, appunti, fotografie, videocassette, libri rari, quasi una (platonica) caverna della memoria che sia lui che lei si ostinano a conservare forse come rimedio all’oblio che li attende.

Gli appassionati del regista di Irréversible, ragazzo terribile oggi cinquantasettenne, lo hanno visto come un’opera di passaggio – alla domanda Noé risponde che è vero, visto che i suoi precedenti lavori erano tutti su persone giovani invece qui i protagonisti sono due anziani. E nel Noè-pensiero – «Il tempo distrugge tutto»- Vortex segna al di là dei suoi personaggi uno scarto crepuscolare, in cui alla cifra esplosiva e «di eccessi» che ha connotato il suo lavoro si sostituisce una dimensione più dolorosa.

La cartografia della Piazza sembra cercare un dialogo col resto, a cominciare dal concorso che poggia su un’autorialità indipendente, alla quale è riconducibile anche un regista affermato come Abel Ferrara del quale oggi si vedrà Zeros and Ones, ancora un film girato durante il lockdown (a Roma), che immagina un mondo di segreti e paranoie all’indomani di un’apocalisse.

AL «GENERE» risponde il nuovo film di Edwin, regista indonesiano col gusto della serie B come spazio di allenamento di un cinema che ha una cifra sempre politica, e che nelle sue storie di gang o eroi in lotta afferma un forte pensiero critico su una società che soffre corruzione, violenza poliziesca e militare di regime, machismo.

Lo conferma questo Vengeance is Mine, All Others Pay Cash che il regista definisce «il lucido e anti-nostalgico showcase di una cinefilia selvaggia nutrita da cassette Betamax». Siamo in Indonesia negli anni Ottanta del regime di Suharto (rimasto al potere fino al 1998), che sono anche quelli dell’infanzia di Edwin (nato nel 1978), tra quei registi emersi nelle generazioni del cinema post-dittatura, rompendo con le esperienze precedenti, e che anche grazie alle nuove tecnologie (lui debutta agli inizi del Duemila) sono riusciti a inventare nuove forme e immaginari trasversali.

Edwin a partire da un romanzo di Eka Kurniawan, che viene definito «il Quentin Tarantino della letteratura indonenesiana» per il suo gusto pulp e surreale con cui racconta la violenza, si accorda allo stile della scrittura (l’autore del romanzo ha co-sceneggiato il film con lui) e mescola suggestioni e frammenti di immaginario, fumetti, il cinema di kung fu, i film dell’epoca, gli action movie degli anni Novanta, in una pop culture della vendetta di cui rovescia il segno, nelle vicende dei i due protagonisti, una coppia stritolata dal potere dei militari corrotti.

E soprattutto da quella cultura maschilista che governa la società, basata sulla violenza e la sopraffazione, che come ha raccontato in una intervista a «Variety» «era profondamente presente in ogni messaggio anche quello in apparenza più innocuo. Mi sono chiesto spesso perché ridevo tanto guardando i film di vendette? Il machismo è uno strumento che il potere utilizza per indottrinare la gente facendo leva sul suo senso di ingiustizia. Ma in una direzione che non costituisce un pericolo che per chi governa».

ECCOCI dunque in un quartiere povero nel 1989, Ajo Kawir è un ragazzo che ama battersi, cerca la rissa e lo scontro in ogni occasione, per nascondere l’impotenza sessuale che lo affligge. Tutti lo sanno però in quella piccola comunità e lo prendono in giro, persino le vecchie prostitute, che si sentono offese perché «non c’è niente di peggio per una puttana di un pene che rimane molle».

Un giorno Ajo Kawir incontra Iteung, è una ragazza ma anche lei sa battersi con determinazione al punto che quasi lo stende. Lavora per un tizio che lui deve menare, un personaggio losco e crudele, molestatore di donne, anche se lei quando ha accettato non conosceva il suo passato. I due si piacciono, Iteung inizia a mandargli messaggi d’amore in forma di canzoni alla radio, lui però scappa perché si vergogna della sua impotenza. Ma a lei non importa, e infatti lo sposa. È solo l’inizio di una lunga serie di tradimenti e di «vendette» che li vede protagonisti, e di un’infelicità che ha origine nella loro infanzia, entrambi bambini abusati in quel mondo feroce.