Quando un aereo solitario e rumoroso solca l’alba di Caracas, il 23 gennaio del 1958, molti capiscono subito quel che sta accadendo: il dittatore Marcos Pérez Jiménez sta scappando. Un’insurrezione civico-militare ha dato l’ultimo colpo alla profonda crisi del regime, che solo un mese prima ha cercato di rifarsi il look con un referendum per prolungare il mandato del dittatore, il 15 dicembre del 1957. Per iniziativa del Partito comunista, le principali formazioni politiche si sono unite nella Junta Patriotica e dirigono la resistenza.

Il nuovo anno inizia con la rivolta militare del colonnello Hugo Trejo. Nei quartieri popolari si alzano bandiere e barricate, ci si scontra con la polizia. Il 21 gennaio, è proclamato lo sciopero generale. In prima fila, c’è il popolo del barrio «2 de Diciembre» che da allora deciderà di cambiare il nome per diventare lo storico quartiere del «23 Enero». Un quartiere simbolo di riscatto popolare, sempre pronto a riprendere la bandiera di quella «resistenza tradita», soffocata dalle «democrazie camuffate» seguite al Patto di Punto Fijo, e caratterizzate dall’esclusione dei comunisti dal governo. Il 23 Enero ha alimentato la resistenza armata contro le democrazie «puntofijiste» e poi la ribellione civico-militare guidata dall’allora tenente colonnello Hugo Chavez, il 4 febbraio del 1992. E nel museo storico del Cuartel de la Montana riposano i resti dell’ex presidente venezuelano, che ha governato il paese dal 1999 fino alla morte, il 5 marzo del 2013.

Dal 23 Enero arriveranno domani molte delle camice rosse bolivariane per partecipare al grande raduno popolare, come ogni anno. La marcia partirà dalla piazza dedicata a Fabricio Ojeda, giornalista e deputato che, dopo la liberazione e il cambio di governo sceglierà poi la lotta armata e perderà la vita. E anche l’opposizione manifesterà il giorno dopo, ma contro il governo Maduro. «Marceremo con le fotografie degli oltre 3.500 giovani, donne, uomini, operai, studenti, dirigenti politici di sinistra che furono assassinati nelle decadi degli anni ’60, 70, 80, 90. Fabricio Ojeda è il vero padre della nostra democrazia», ha detto il dirigente chavista Jorge Rodriguez. In quegli anni, e durante quelle democrazie molto lodate da Washington, il Venezuela ha raggiunto infatti un triste primato, anticipando il Cile e l’Argentina: quello degli «scomparsi». I corpi di molti militanti si cercano ancora. Una manifestazione all’insegna del «socialismo del XXI secolo» e della «democrazia partecipativa e protagonista» che ispirano e modellano il «governo della strada» di Nicolas Maduro.

L’ex autista del metro, che dirige il Venezuela da due anni contro venti e maree, ha ripercorso il paese alla guida di un autobus: per rivendicare le sue origini e ribadire gli interessi che rappresenta in un momento molto delicato. Dopo la drastica caduta del prezzo del petrolio – croce e delizia di un paese che ne custodisce le più grandi riserve e che ne è il quinto esportatore – Maduro ha effettuato un viaggio in Algeria, Arabia Saudita, Qatar, Russia, Iran, e soprattutto Cina. Secondo i media di opposizione, da Pechino non ha ottenuto prestiti, ma solo ulteriori accordi commerciali, oltre a quelli consolidati da anni: i cinesi avrebbero voluto il controllo di alcune miniere, ma Maduro ha rifiutato.

Il presidente ha anticipato invece che è tornato dalla Cina con 20.000 milioni di dollari in «denaro sonante» e che dal Qatar importanti banche forniranno «ossigeno sufficiente» per compensare le perdite dovute alla caduta del prezzo del petrolio. E che di cedere al neoliberismo o tagliare gli investimenti sociali, non se ne parla: «dobbiamo approfondire il socialismo», ha detto. La destra ha riassunto il viaggio in una vignetta: da una nave cinese, due timonieri lanciano un salvagente con la scritta «capitalismo» a un Maduro che annaspa nelle pessime acque del «socialismo del XXI secolo».

Ieri sera (troppo tardi per noi) si è tenuta una sessione speciale del parlamento nella quale Maduro ha illustrato le misure che intende prendere per «il recupero economico» del paese, in recessione dal 2014. La finanziaria per il 2015 aveva previsto un’entrata di 60 dollari per ognuno dei 2,5 milioni di barili che il paese esporta quotidianamente, ma ora il petrolio oscilla intorno ai 40: per un modello economico ancora basato sulla rendita petrolifera, e per un governo che ha scelto di dedicare oltre il 60% delle sue risorse interne alla redistribuzione sociale, non è impresa facile. Il Venezuela è al centro delle alleanze solidali che, dall’Alba a Petrocaribe, forniscono petrolio a basso costo in cambio di prodotti e servizi, e consentono a paesi come Cuba di rivenderlo a prezzo maggiorato per sostentare le proprie economie e svincolarsi così dalla tutela delle grandi istituzioni internazionali che pretendono in cambio «aggiustamenti strutturali».

Il clima, però, è rovente. L’opposizione preme per un ritorno al modello della IV Repubblica, per la fine del controllo dei cambi e per la cancellazione di quelli che considera «sprechi». Si è scatenata una corsa all’accaparramento dei prodotti, mentre si moltiplicano i sequestri di merce destinata al contrabbando (tonnellate): una guerra economica, secondo il governo, che accusa i media privati di indurre la paura e la coazione all’acquisto. In ogni caso, questo prova che di denaro ne circola molto nel paese, soprattutto con il traffico del dollaro parallelo.

E il dibattito ferve anche nelle file chaviste: chi vorrebbe spingere sul pedale delle espropriazioni e un maggior controllo statale e chi chiama al dialogo col settore privato. Il governo ha annunciato la creazione di «zone economiche speciali»; in alcuni stati di frontiera le imprese potranno impiantare fabbriche e portare dollari. Un esperimento poco socialista in Honduras.

Il Venezuela bolivariano saprà fare altrimenti? L’esito è tutt’altro che scontato