Se il governo statunitense ha sempre negato che le sanzioni contro il Venezuela potessero colpire la popolazione, penalizzando appena gli alti funzionari chavisti e le imprese ad essi legate, dalle Nazioni unite non poteva giungere una smentita più netta.

I RISULTATI PRELIMINARI della visita nel paese, dall’1 al 12 febbraio, di Alena Douhan, relatrice speciale Onu sulle misure coercitive unilaterali e sui diritti umani, mostrano in maniera inequivocabile quanto «devastanti» siano le conseguenze dell’embargo «sull’intero popolo venezuelano, e in particolare sui più poveri, sulle donne, sui bambini, sugli operatori sanitari, sulle persone con disabilità o malattie croniche e sulle popolazioni indigene».

Il rapporto preliminare, frutto di riunioni con il governo, con l’opposizione, con la Chiesa cattolica, con le ong, non fa sconti all’amministrazione chiavista, riconoscendo, per esempio, come la crisi economica fosse iniziata già nel 2014 con la caduta del prezzo del petrolio, nel quadro di un’economia in gran parte dipendente dall’esportazione di greggio.

Una crisi favorita da una produzione interna insufficiente a soddisfare le necessità di consumo della popolazione, con conseguente bisogno di importare «la maggior parte dei prodotti, dai macchinari ai pezzi di ricambio fino agli alimenti e alle medicine».

È EVIDENTE, tuttavia, fino a che punto le sanzioni, introdotte per la prima volta nel 2005 e fortemente inasprite a partire dal 2015 fino a «un embargo economico totale nell’agosto del 2019», abbiano «aggravato i problemi» preesistenti (e, si può aggiungere, impedito al governo di correre ai ripari per risolvere la crisi). Si spiegano così – secondo le conclusioni preliminari del rapporto che sarà presentato a settembre al Consiglio Onu per i diritti umani -, la riduzione addirittura del 99% delle entrate statali; l’erosione delle condizioni di lavoro; la caduta dei salari, passati da 150-500 dollari nel 2015 a 1-10 dollari nel 2020; il crollo dei servizi pubblici, compresa la fornitura di acqua ed elettricità; la scarsità di medicine; la crescita dell’insicurezza alimentare.

IN QUESTO QUADRO drammatico, non poteva essere più decisa l’esortazione di Alena Douhan a Usa, Ue e altri paesi a ritirare le misure coercitive unilaterali contro il Venezuela, come pure quella rivolta al Regno Unito, al Portogallo e ancora agli Usa «a scongelare i fondi della Banca Centrale venezuelana» – pari a 6 miliardi di dollari, ora sotto il controllo di Juan Guaidó – per consentire l’acquisto di medicine, vaccini, alimenti, pezzi di ricambio e altri beni necessari a «garantire le necessità umanitarie del popolo del Venezuela e il recupero dei servizi pubblici» sotto la supervisione degli organismi delle Nazioni unite.

Qualcosa, al riguardo, sembra però cominciare a muoversi. Un primo segnale di un possibile ammorbidimento delle sanzioni da parte degli Usa è venuto il 2 febbraio dalla decisione del Dipartimento del Tesoro americano di autorizzare le operazioni ordinarie nei porti e negli aeroporti venezuelani, vietate da un ordine esecutivo emesso nel 2019 dall’amministrazione Trump, benché resti il divieto di transazioni o attività relative all’esportazione di diluenti «per produrre benzina direttamente o indirettamente».

E anche sul fronte sanitario, dopo il rifiuto da parte di Guaidó della proposta del governo di destinare al pagamento dei vaccini anti-Covid 120 milioni di dollari detenuti illegalmente in Inghilterra, i rappresentanti del governo Maduro e quelli del leader dell’opposizione si sono riuniti per discutere dell’acquisto di vaccini tramite il Fondo di accesso globale Covax, mirato a garantire la campagna di vaccinazione anche ai paesi poveri.