L’ultimo lavoro del sociologo e documentarista Thierry Deronne descrive e analizza la realtà delle tv comunitarie. Un tema poco frequentato in Italia, dove la concentrazione monopolistica dei media ha ridotto al minimo gli spazi per l’informazione alternativa. Ma Deronne, di origine belga, è dagli anni ’80 che ha scelto di vivere in Venezuela e di accompagnare lo sviluppo dell’informazione dal basso. Un settore che ha ricevuto grande impulso dopo la vittoria elettorale di Hugo Chávez, nel 1988. Il suo libro Comuna, tiempo y television, balance y futuro de la television comunitaria venezolana

Perché questo libro e a chi si rivolge?
All’inizio è nato dall’urgenza del movimento delle televisioni comunitarie, sempre rimandata dalla militanza che non ha il tempo per sistematizzare questa nostra esperienza, unica nel mondo, di 15 anni di televisioni comunitarie che trasmettono 24 ore su 24, legali, libere, autonome. Il principale obiettivo è che questa esperienza serva da insegnamento ai nuovi media, affinché non incorrano negli errori dei pionieri. Però la quantità di proposte ha trasformato questa investigazione in una proposta di Stato, per una nuova relazione tra Stato, socialismo e comunicazione popolare in Venezuela.

Qual è la tesi che esprime?
Quella che non si può realizzare il socialismo se si crede che la cultura e la comunicazione siano appannaggio solo dei ministeri. Oggi il governo del satellitare assorbe la politica. L’unica garanzia di esistere nel futuro passa per allontanare definitivamente l’impresa privata, a livello nazionale e mondiale, dalla produzione e dalla diffusione dell’informazione, e dalla creazione culturale: altrimenti la sinistra finisce per scomparire come sta accadendo in Europa, dove vive un profondo disorientamento e non sa dove situarsi. Crede di vedere il mondo mentre si trova al fondo della caverna di Platone, infagottata nelle catene umanitarie o societarie. Da tempo Moretti l’ha rappresentata in Palombella Rossa. Nel caso venezuelano, la nostra proposta è di superare questo controllo digitale in due maniere: quantitativa (attribuendo la maggioranza dei canali, delle frequenze, ai media comunitari e pubblici, cacciando definitivamente il commerciale dal mondo della comunicazione), e qualitativa (facendo in modo che il socialismo torni a essere la grande scuola permanente di creatori di nuovi contenuti e nuove forme). Parliamo di formarci a tutto spiano, in modo permanente, per liberarci dal marketing, dalle zavorre, dalla frammentazione del reale: contando sui referenti latinoamericani (Paulo Freire, Augusto Boal, Santiago Álvarez, eccetera…) e sulla nostra ricca esperienza venezuelana di comunicazione popolare. I due aspetti sono inseparabili: solo la quantità genera, in ultima istanza, la qualità di una nuova cultura. Qui la scala ideale non è il paesaggio della pittura coloniale ma la «toparchia» di Simón Rodríguez (filosofo e maestro di Simón Bolívar): la comuna che si cerca di costruire in Venezuela, appoggiandosi sulla democrazia partecipativa dei consigli comunali. La televisione comunale, poiché è immersa in un processo produttivo, può articolare meglio il locale con il globale, essere la scuola di tutti e tutte per rincontrarsi con la storia muta dei vinti, con altri modelli di vita possibili. Se ognuna di queste comuni che ha raggiunto un grado di organizzazione sufficiente disponesse di una concessione radio e televisione per riflettere le sue attività, potrebbe fortificare la sua organizzazione interna e si potrebbe creare una rete di informazione intercomunale. «Proponiamo un sistema comunale che sarà in mano al contadino che produce alimenti per poter controllare il percorso dalla produzione fino alla distribuzione, al fine di evitare la presenza di intermediari, che sono quelli che provocano la scarsità dei prodotti», dice Carlos Landaeta, portavoce del consiglio presidenziale delle comunas a Barinas (a gennaio del 2016, dopo la sconfitta elettorale alle legislative del 6 dicembre). Sostituiamo il termine «alimenti» con quello di «informazione» e avremo il modo di produzione della televisione comunale. Così sorgerà una nuova relazione tra media e popolo. Inoltre, la vocazione di questa «cellula» (come Chávez definiva la Comuna) non è quella di rimanere isolata, ma di unirsi: un dialogo di immagini autonome senza controllo di intermediari è il motore perfetto per costruire la necessaria unità dei popoli.

I governi bolivariani hanno varato misure uniche al mondo: la legalizzazione, la concessione di frequenze e l’appoggio economico dei media comunitari da parte dello Stato. A partire dalla sua grande esperienza, a che punto è la lotta contro il latifondo mediatico?
Anche se è giornalista professionista, il nostro nuovo ministro di Comunicazione e informazione, Luis José Marcano, ha superato il tradizionale atteggiamento sdegnoso della sua categoria nei confronti del protagonismo popolare e la comunicazione comunitaria sta riprendendo la consegna di un’abilitazione paritaria dei media comunitari, com’è accaduto giorni fa nello stato Tachira. Però in Venezuela, siamo lontani dalla «riforma agraria dell’etere», che è l’unico modo di ripristinare la sovranità popolare, la gran maggioranza continua a vedere le telenovela di Venevisión e Televen, i canali privati. Bolivia, Ecuador o Argentina (fino all’arrivo di Macri) hanno invece legiferato per dividere lo spettro in tre terzi: comunitario, pubblico e privato.

Quali sono stati i passi avanti e quali i problemi?
Oltre a occupare una parte minima dello spettro radioelettrico, abbiamo un problema storico, un problema di cultura politica. Dall’attualità cinematografica della dittatura di Gomez fino ai primi notiziari patrocinati dalla Creole in Rctv, la comunicazione sociale in Venezuela è nata all’ombra della televisione commerciale nordamericana, come falsa coscienza del boom petrolifero e delle nascenti megalopoli, come tecnica autoritaria, verticale, antipartecipativa. L’idea, insomma, che la comunità è e deve essere il soggetto del medium cozza con la consuetudine di delegare la voce, di lasciare lo schermo alle solite star. Da un altro lato, l’assenza di unità dei media comunitari, la poca formazione innovatrice del paradigma, la settorializzazione in base a interessi economici, la privatizzazione personale o famigliare, le difficoltà della sostenibilità e il peso schiacciante dello spettro commerciale hanno collocato le televisioni comunitarie in una situazione che non consente loro di svilupparsi pienamente come modello comunicativo originale.

In che senso lei scrive, insieme all’ex viceministro dell’area economica, il sociologo Luis Salas, che la televisione comunitaria è il primo gradino di uno Stato nuovo? I media comunitari sono un elemento importante del potere popolare?
Queste difficoltà si presentano nel contesto di un metabolismo capitalista che trasforma i popoli in masse passive. Questa massa indifferenziata è allo stesso tempo un popolo che cerca un maggior protagonismo. Come riarticolare questo protagonismo, come superare la cultura del degrado umano e inventare un mondo nuovo? Sarebbe un errore credere nella «fine della Storia». Ridurre l’essere umano all’homo economicus, omogeneizzato, senza altro desiderio che quello di consumare per diventare virtualmente potente, è impossibile. La televisione privata è storicamente immobile, prigioniera della sua propria logica. Il Latinoamerica non ha niente a che vedere con quel che era trent’anni fa. In questo sfasamento tra l’immobilità e il futuro, sta la nostra responsabilità storica: quella di creare un altro paradigma di televisione come la televisione comunale.

Lei si chiede nel libro: sarà la televisione comunitaria venezuelana il germe di una nuova televisione in un mondo nuovo? Vuoi dire che i media comunitari non sono stati colpiti dalla crisi di militanza che c’è oggi a sinistra?
Non è solo una crisi di militanza, ma una evoluzione sociale a livello mondiale, che colpisce sia i comportamenti individuali che le politiche collettive. In una recente indagine del nostro ministero di Cultura, la maggioranza degli intervistati dice che non partecipa agli eventi culturali perché non ha tempo, e questo ci ricorda che non si può sognare il socialismo se non si recupera e si libera tempo di vita ancora assorbito dalla necessità di vendere la propria forza lavoro. La televisione comunitaria deve prima di tutto essere una televisione che annuncia tempo liberato, interroga la violenza che implica vivere per lavorare senza poter fare altro. Il mondo nuovo deve essere presente in ogni momento del suo modo di produzione: nel tempo dell’indagine, dell’incontro con l’altro in termini di uguaglianza e di rispetto, nel tempo dell’ascolto, della creazione congiunta di un programma, della sua realizzazione e della sua edizione partecipativa, nel tempo della retroalimentazione da parte della comunità, nel tempo della trasformazione collettiva, eccetera…

Prima e dopo il 6 dicembre, i media comunitari hanno avuto un ruolo critico importante. Con quali conseguenze concrete?
Quella di ricordare che il socialismo non si vende come una pubblicità, che si muove grazie alla critica e all’analisi popolare, e che la rivoluzione è partecipazione protagonista, «o la comuna o il niente», come diceva Chávez.

Luis Salas non è più nel governo, la sua permanenza è durata poco. Che significa? Che sta succedendo alla rivoluzione bolivariana? Jesús Faria parla di una nuova Nep e il presidente fa appello al parlamento comunale e ai «soviet boliviariani».
Chávez ha realizzato due grandi cose: lanciare la realizzazione della democrazia partecipativa, unitamente a un socialismo di ridistribuzione delle entrate petrolifere. A Nicolás Maduro tocca ora un compito difficile: passare dall’economia petrolifera basata sulla rendita a un’economia produttiva, senza che si perdano le conquiste sociali. Nella strategia del caos economico, il messaggio della destra è una manina che si tende perché tu non affoghi, quando la mano dello stato sembra non essere lì. Per questo credo che per capire il Venezuela di oggi, e se davvero si devono fare proiezioni a livello europeo, non ci serve tanto l’Unione sovietica degli anni venti quanto l’Italia di Pasolini. Nelle legislative del 6 dicembre, la maggioranza della gioventù non è andata a votare: è una generazione che, per come erano le statistiche sulla miseria e la mortalità infantile di prima, non avrebbe dovuto nascere, però è nata grazie ai miglioramenti che ha portato la rivoluzione. Solo che vive in una specie di vuoto: che non è più quello dei sobborghi di Mamma Roma ma quello culturale. La gioventù erra tra i videogiochi di guerra, Facebook, Discovery Channel, il narcotraffico, i capi paramilitari le sembrano avere più potere dello Stato, in realtà non vive nel campo della politica classica, sta da un’altra parte. È questo vuoto il punto di gravità che determinerà il futuro immediato della rivoluzione bolivariana.