Il leader dell’estrema destra venezuelana, Leopoldo Lopez, rifiuta di recarsi alle udienze del suo processo. Dopo ripetuti rinvii, la magistratura ha deciso di procedere in sua assenza. Lopez, dirigente del partito Voluntad Popular si trova in carcere dal febbraio 2014, accusato di aver promosso e diretto le proteste violente contro il governo di Nicolas Maduro, che hanno provocato 43 morti e oltre 800 feriti.
Lopez ha quasi subito deciso di snobbare la giustizia del suo paese, preferendo affidarsi alle campagne internazionali. I suoi trascorsi non sono propriamente quelli di un pacifista e di un sincero democratico. Durante il colpo di stato del 2002 contro l’allora presidente Hugo Chavez – poi riportato in sella a furor di popolo – Lopez è stato filmato mentre assaltava l’ambasciata cubana e sequestrava i diplomatici con le loro famiglie, spalleggiato dal suo sodale Henrique Capriles Radonski, leader di Primero Justicia. Il suo nome è stato però il primo pronunciato dal presidente Usa Barack Obama nella lista dei «prigionieri politici» da liberare subito. Obama ha anche ratificato le sanzioni decise dal Congresso contro i funzionari venezuelani «che hanno violato i diritti umani dei manifestanti durante le proteste del febbraio scorso». E, a dicembre, una risoluzione del Parlamento europeo – approvata con 476 voti a favore, 109 contrari e 49 astensioni – si è allineata con Washington, ha espresso la propria «preoccupazione per la situazione del Venezuela» e ha condannato «la carcerazione di manifestanti pacifici, studenti e leader dell’opposizione». I famigliari delle vittime delle guarimbas- tecniche di guerriglia violenta che, con barricate di chiodi e fil di ferro hanno sgozzato diverse persone – hanno provato a farsi sentire. Erano andati lì per illustrare un fascicolo di dati e video in cui si evidenzia la natura tutt’altro che pacifica degli scontri di febbraio e le accuse per le quali restano in carcere alcuni imputati e per chiedere giustizia per i loro morti. Ma non hanno trovato udienza.

A fine anno, il presidente Nicolas Maduro ha rispedito al mittente «le ingerenze» degli Stati uniti. E ha proposto di inviare Lopez negli Stati uniti in cambio del suo quasi omonimo militante indipentista portoricano Oscar Lopez Rivera, detenuto nelle galere Usa da 34 anni: «Lui sì che è un prigioniero politico», ha detto Maduro. Washington ha fatto sapere che la strada non è assolutamente percorribile. Leopoldo Lopez ha rilasciato un’intervista al quotidiano cileno El Mercurio in cui afferma che Maduro gli ha fatto la proposta di andarsene negli Stati uniti, ma che lui ha rifiutato: «Vogliono mandarmi via per paura, sanno che sono portatore di una proposta alternativa al cosiddetto socialismo del XXI secolo che è fallito», ha dichiarato Lopez. Poi ha chiesto aiuto «ai democratici cileni». Gli ha subito risposto l’ex presidente cileno (di destra) Sebastian Piñera (non proprio un campione in diritti umani, come ben sanno gli studenti cileni che hanno sofferto la repressione durante il suo mandato e gli indigeni mapuche). Piñera sarà in Venezuela il 26 gennaio per un incontro internazionale delle destre e dell’opposizione a Maduro. In quell’occasione ha assicurato che andrà a visitare Lopez in carcere. Intanto, in vista delle elezioni legislative che si svolgeranno a dicembre, il cartello di opposizione (Mud) chiama alla mobilitazione. I guarimberos hanno bruciato qualche scuolabus, ma allo sciopero nazionale indetto dagli oltranzisti non ha aderito nessuno.