Venezuela sul baratro della guerra civile. Scontri di piazza. Una quarantina di morti da aprile. Scoperte cellule armate. L’opposizione al presidente Nicolás Maduro cerca di dare la spallata finale alla «rivoluzione bolivariana» che ha avuto in Hugo Chávez il leader dalla prima vittoria elettorale nel 1998 fino alla morte nel 2013.

Il governo scricchiola e propone una «Assemblea costituente» aperta a movimenti sociali e opposizione. A rendere la situazione incandescente ci pensa la situazione economica: inflazione al 500%, paralisi nella produzione di petrolio (l’oro di Caracas) e suo deprezzamento, scarsità di beni di prima necessità e di medicinali.

Gli Stati Uniti, che avevano nel Venezuela uno dei principali fornitori di petrolio, sono in prima fila nel chiedere la resa dei conti.

Il muro contro muro è estremamente pericoloso anche per gli equilibri latinoamericani, dove si assiste a una ripresa della destra in paesi fondamentali come Argentina e Brasile. In Italia tra i paladini dell’opposizione venezuelana ci sono il Pd e Pier Ferdinando Casini, sensibili acriticamente alle pressioni che vengono dalla potente lobby della comunità italiana a Caracas.

Un ruolo di positiva mediazione, anche se ancora infruttuosa, lo stanno svolgendo il Vaticano e alcuni ex premier (tra cui il socialista Zapatero). Ha detto Papa Bergoglio sull’aereo di ritorno dal recente viaggio in Egitto: «Parte dell’opposizione in Venezuela non vuole il dialogo, è divisa. Governo e società evitino la violenza».

La rivoluzione bolivariana – ecco il punto politico – ha necessità di rilegittimazione. La sfida tra governo e opposizione, con l’ausilio di osservatori e mediatori internazionali, deve restare democratica per evitare il fragore delle armi. Maduro nel bunker non avrebbe molte chance di successo, mentre una competizione a viso aperto su quanto fatto dal 1998 in poi potrebbe ridargli chance di consenso, dividendo una opposizione più frastagliata di quanto non sembri e dove non sono emarginate le tendenze golpiste. Ora è giunto il momento della scelta più ardua: mettere alla prova consenso e progetto di nuovo nelle urne, dove si può vincere o perdere.

Le elezioni presidenziali, previste per la fine del 2018, si potrebbero anticipare di alcuni mesi, non per il diktat dell’opposizione ma per scelta «pactada», concordata. Hic Rhodus, hic salta.

Con uno scatto di saggezza politica, Maduro ha intanto già evitato di impugnare la sentenza della Corte suprema di giustizia di Caracas che gli permetteva di esautorare i poteri del Parlamento. Le possibili reazioni di Washington, i consigli di prudenza venuti da Cuba devono aver fatto riflettere il presidente del Venezuela. Del resto, merito del chavismo è di aver proceduto sempre con metodo democratico accettando l’esito delle urne. Pure nel 2007 quando fu bocciata la riforma costituzionale in un referendum. Il problema però è che il chavismo senza Chávez ha perso smalto dopo aver accumulato successi nella redistribuzione del reddito, nella sanità pubblica, nell’istruzione, nella spinta a nuove forme di unità latinoamericana (il Trattato Alba e la tv Telesur, per esempio) e aver accentuato il suo profilo «socialista».

L’ascesa di Chávez, origine sociale poverissima, indio, ex tenente colonnello, aveva destato speranze. È stato definito dai nemici «caudillo», «populista», «peronista». Se l’antico metodo della «lotta di classe» forse non è più utile a spiegare ciò che accade in Europa, è ancora utilizzabile nelle società latinoamericane e del Terzo mondo. Dal 1998 in poi una media di un milione e 400 mila venezuelani hanno imparato a leggere e a scrivere ogni anno.

Dal 1998 in poi 3 milioni di persone sono state inserite per la prima volta nel circuito dell’educazione primaria, secondaria e universitaria. 17 milioni di venezuelani hanno ricevuto assistenza medica nell’ambito di un servizio sanitario nazionale. Il razionamento alimentare aiuta le fasce più povere della popolazione. Tutto ciò spiega la tenuta del chavismo fino al 2017.

Con la morte di Chávez, la situazione si è complicata. Maduro è stato eletto presidente nell’aprile 2013 battendo per un soffio il rivale Henrique Capriles: 50,66% contro 49,07%. Nel 2015 ci sono poi state le elezioni per il rinnovo del Parlamento con il prevalere delle opposizioni, rendendo più difficile l’azione di presidente e governo.

Crisi economica e instabilità politica si sono via via intrecciate evidenziando i limiti delle nazionalizzazioni eccessive e burocratiche che hanno accentuato le difficoltà. Un errore madornale è stato non diversificare l’economia restata dipendente dal solo petrolio.

Ora si tratta di evitare a Caracas finali di partita col sangue. La responsabilità politica è nelle mani di governo, opposizione e comunità internazionale.