Incuranti del dialogo in corso tra governo e opposizione – o forse proprio in risposta ai timidi passi avanti che pare si siano registrati durante l’ultimo round negoziale alle Barbados -, gli Stati uniti hanno deciso di giocare la carta dell’embargo finanziario totale contro Maduro.

Dopo l’adozione di svariate e sempre più pesanti sanzioni, che hanno colpito un centinaio tra individui ed enti, comprese la società petrolifera statale Pdvsa e la Banca centrale venezuelana, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo con cui congela, in forma immediata e totale, i beni del governo bolivariano negli Usa, vietando transazioni con l’esecutivo venezuelano a meno di esplicite eccezioni.

Un embargo che pone il Venezuela sullo stesso piano di Corea del Nord, Iran, Siria e Cuba. «Ho ritenuto necessario bloccare le proprietà del governo venezuelano a causa della continua usurpazione del potere da parte del regime illegittimo di Nicolas Maduro», ha dichiarato il presidente Usa in una lettera al Congresso.

E potrebbe non fermarsi qui, ritenendo necessario, per esempio, imporre «un blocco navale o quarantena» contro Caracas, come ha affermato il primo agosto rispondendo a una precisa domanda dei giornalisti sul possibile ricorso a una tale estrema misura («Sì, lo sto considerando»).

«Significa che una nave non entra, né parte», ha spiegato Maduro durante un evento nello Stato di La Guaira, rivelando di aver incaricato l’ambasciatore venezuelano presso le Nazioni Unite, Samuel Moncada, di denunciare «la minaccia illegale» al Consiglio di sicurezza Onu. «I mari del Venezuela saranno liberi, sovrani e indipendenti e li navigheremo come decideremo noi», ha garantito.

Pure i cieli del Paese devono far fronte alle minacce di Washington, considerando le 78 violazioni dello spazio aereo venezuelano commesse quest’anno da aerei spia statunitensi. Un assedio, quello imposto al Venezuela, che non ha risparmiato nulla: né il petrolio, né l’oro e neppure i Clap (Comitati locali di approvvigionamento e produzione), il programma statale di distribuzione di alimenti sussidiati grazie a cui oltre 7 milioni di famiglie riescono a sopravvivere alla crisi.

Con buona pace della retorica sugli aiuti umanitari, anche su tale programma si è infatti abbattuta nei giorni scorsi la scure delle sanzioni, giustificate dal segretario del Tesoro Steven Mnuchin in base a una presunta «rete di corruzione» che permetterebbe a Maduro e ai suoi familiari di depredare il popolo venezuelano, utilizzando «gli alimenti come una forma di controllo sociale».

In questo quadro, e soprattutto alla luce del decreto esecutivo di Trump – definito dal ministero degli Esteri venezuelano un atto di «terrorismo economico» mirato proprio a «far fallire il dialogo politico» – aumentano ulteriormente i dubbi sul futuro dei negoziati tra governo e opposizione, che pure contano sull’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione venezuelana. Come potrebbe mai l’autoproclamato presidente Juan Guaidó, in tutto e per tutto una creatura degli Stati uniti, raggiungere un qualsiasi accordo con «l’usurpatore»?

Non a caso, ignorando olimpicamente gli sforzi dei governi della Norvegia e delle Barbados, il consigliere per la sicurezza John Bolton ha dichiarato ieri, proprio in riferimento all’ultima misura adottata da Trump, che «il tempo del dialogo è finito, ora è il momento per l’azione». Non senza minacciare i Paesi alleati del Venezuela: «Non è il caso di mettere in pericolo i propri interessi commerciali con gli Usa solo per beneficiare un regime corrotto e moribondo».